di Alessandro Campi
Come possa andare ancora avanti il governo delle larghe intese tra Pdl e Pd, con tutto quel che sta accadendo all’interno dei due partiti e nel rapporto tra di essi, è un mistero il cui segreto, ammesso che esista, si deve trovare gelosamente custodito dalle parti del Quirinale. Giorgio Napolitano, infatti, è l’unico – se si eccettuano le professioni d’ottimismo di Letta e dei suoi ministri, dettate dal dovere d’ufficio – sinceramente convinto che quest’esperimento possa continuare. Il che è cosa diversa dall’affermare che, nell’interesse del Paese, esso debba continuare a ogni costo. Mai come in questo momento, nella breve e difficile vita di questo strano esecutivo, realtà e speranza, ciò che è e ciò che dovrebbe essere, sono risultate così drammaticamente divaricanti.
L’esito delle elezioni tedesche, con la Merkel trionfante ma comunque costretta dai numeri ad un governo di grande coalizione, sembrava aver dato un surplus di legittimità alle larghe intese in salsa italica: quello che vale a Berlino perché non dovrebbe valere a Roma? La riunione al Colle tra il Capo dello Stato e i massimi rappresentanti dei partiti che sostengono Letta in Parlamento sembrava aver fatto balenare la prospettiva di un patto di legislatura di almeno un anno. Il tempo necessario per garantire, insieme alla sospirata stabilità, la chiusura di alcuni importanti dossier: la riforma istituzionale, un piano di privatizzazioni necessario per fare cassa e provare a ridurre la pressione fiscale, un piano di tagli alla spesa pubblica per mettere stabilmente sotto controllo il bilancio dello Stato, l’adozione di misure di semplificazione burocratica per far tornare in Italia gli investimenti esteri, ecc.
Ma è bastato poco per capire che siamo ormai ad un passo dalla crisi e che l’orizzonte che ha davanti il governo non è dodici mesi, ma forse di qualche giorno. Appare infatti evidente, al di là delle dichiarazioni di facciata dei diversi leader, che quotidianamente fanno appello al senso di responsabilità e invitano gli avversari a non fare passi avventati, che nei due partiti le fazioni che spingono per le elezioni anticipate – i renziani nel Pd, gli ortodossi berlusconiani nel Pdl – hanno ormai preso il sopravvento su quelle che invece tifano per la continuità dell’esecutivo e la durata della legislatura.
Tra Renzi (che teme di essere irretito dagli oligarchi del Pd a colpi di regolamenti e cavilli e che ha come vera ambizione Palazzo Chigi più che Largo del Narazen) e Berlusconi (che non ci sta a vestire i panni del condannato e che teme lo scatenarsi delle Procure dopo la sua decadenza da senatore) si è ormai creato un interesse convergente, non dichiarato ma oggettivo: esasperare il clima, far cadere Letta (per un banale incidente parlamentare, o magari attraverso un gesto simbolico ed eclatante, come sarebbero le dimissioni di massa dei deputati del Pdl ventilate ieri sera) e andare al voto anticipato. Che sarebbe, al di l à della volontà di Napolitano, un passaggio inevitabile dal momento che in Parlamento, stante l’atteggiamento oltranzista di Grillo, non esistono maggioranze politiche alternative all’attuale e che maggioranze raccogliticce a colpi di “responsabili”, transfughi e senatori a vita sarebbero un rimedio peggiore del male.
Renzi ha capito che il suo vero avversario non è Gianni Cuperlo, ma Enrico Letta. E ha quindi deciso di passare all’attacco finale: per lui non si tratta più di incalzare il governo a fare bene, come nelle scorse settimane, ma di metterne in risalto il fallimento strategico. La battaglia tra i due –secondo molti osservatori – si giocherà sul terreno dell’economia, a partire dalla legge di stabilità alla quale il governo sta lavorando e che secondo i renziani mancherebbe delle necessarie coperture finanziarie. Quanto al Cavaliere, il fatto che abbia trasferito a Roma la sua residenza legale non significa che intenda scontare a Palazzo Grazioli, invece che ad Arcore, gli arresti domiciliari, ma che ha deciso di fare della sua dimora romana, nel cuore della politica nazionale, la base operativa di una campagna elettorale che sente ormai prossima.
D’altro canto ci sono serie ragioni politiche che sempre più depongono, contro ogni speranza o ragionevolezza, per la fine delle larghe intese. Che semplicemente non hanno mantenuto, ad oggi, le attese che le avevano giustificate dopo il voto di febbraio e le convulsioni parlamentari che ne erano seguite. L’insediamento dell’esecutivo fu accompagnato, come si ricorderà, da discorsi gravi e allarmanti di Napolitano e dello stesso Letta, nell’occasione del suo insediamento. Fu tracciata una mappa di riforme indispensabili, da adottare in breve tempo, ma che in larga parte è però rimasta lettera morta. Per prevenire o frenare le tensioni tra alleati si è adottata, su molte materie, la strategia del rinvio permanente. Ancora due giorni fa, su un provvedimento come quello sul finanziamento pubblico ai partiti, che doveva essere dirimente anche sul piano dell’immagine per l’intera politica italiana e certamente per questa maggioranza, si è visto che tra Pdl e Pd non esiste un terreno comune d’intesa. Come non esiste sulla politica economia e su come gestire una finanza pubblica che negli ultimi mesi è tornata drammaticamente fuori controllo.
Gli argomenti forti utilizzati sin qui contro la crisi, per dissuadere chi manovrava contro il governo in carica, sono state le dimissioni di Napolitano e le reazioni dei mercati dell’Europa ad una eventuale fine anticipata delle larghe intese. Ma si tratta di argomenti che rischiano di essere largamente spuntati. È difficile, nel bel mezzo di una crisi politico-istituzionale come quella che si annuncia, che un uomo ligio al suo ruolo come Napolitano dia seguito alla minaccia da lui stesso ventilata il giorno che accettò un secondo mandato: non sarà certo lui ad aggiungere caos al caos. Al tempo stesso, un governo che cade è una tragedia meno grave, anche agli occhi degli investitori internazionali e dei burocratici di Bruxelles, di un governo che sopravvive a se stesso, che non decide nulla o che fibrilla in permanenza. Si dirà, infine, che non si può andare a votare con l’attuale legge elettorale, ma l’abbiamo detto talmente tante volte da esserci stancati. Il fatto vero è che la politica ha una sua propria dinamica, inarrestabile dall’esterno o sulla base di qualche auspicio: il movimento che sembra portare alla caduta del governo sembra essersi avviato e non si capisce, a questo punto, chi possa fermarlo.
* Apparso su “Il Mattino” di Napoli del 26 settembre 2013 con il titolo Se il conflitto supera il punto di non ritorno.
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