di Salvatore Sechi

Ora la leadership di Pierluigi Bersani nel Pd è diventata apertamente contendibile. All’assalto di Matteo Renzi è seguita quella di un bravo ministro ed economista come Fabrizio Barca. Pertanto, ha senso farsi due domande: 1. come è stato possibile che un dirigente proveniente dal comunismo emiliano (quindi attento a perseguire azioni politiche realistiche e di compromesso) abbia potuto concepire una linea politica che prevede la formazione di un governo di minoranza per realizzare un ampio programma di riforme spalmato su molti e lunghi anni? 2. Come è possibile che il segretario del maggiore partito di sinistra in Italia e uno dei maggiori in Europa meni per circa 50 giorni un inutile e tedioso balletto (chiamato pomposamente consultazione) con partiti, sindacati, associazioni e movimenti che dalla fine delle elezioni è costata un punto di Pil?

Si è così assunto una responsabilità impensabile per un leader comunista: cioè di far espellere dal mercato del lavoro migliaia di operai e impiegati e di determinare la chiusura di migliaia di imprese, il suicidio di molti artigiani e piccoli imprenditori, cioè la condanna alla fame e al sottosalario di un numero impressionante di giovani e di famiglie. È, invece, quanto sta avvenendo. Certamente non solo (è bene rilevarlo), ma anche e soprattutto da quando Bersani si ostina a cercare con ogni tartufismo, escamotage e furberia di realizzare le condizioni per il suo governo del cambiamento.

Questa proposta, articolata in 7 punti, da quasi un mese è all’attenzione dei mass media e dei canali televisivi. Qui i suoi fedelissimi ne hanno fatto una valorizzazione patetica, in chiave quasi soteriologica. Ciò malgrado il centro-destra (il Pdl), la Scelta Civica Monti e la nuova sinistra (di Grillo), hanno costantemente respinta come improponibile e comunque inaccettabile sia il voto di fiducia al governo (come previsto dall’art. 94 della costituzione, terzo comma) sia la richiesta di rendere possibile, in maniera sorniona, il passaggio, di volta in volta, delle singole riforme e atti di governo. Sulla fiducia, “abbiano chiesto, e chiediamo che non la impedisca”, come ha ripetuto, su “Il Foglio” (10 aprile), riferendosi al Pdl, un esponente della segreteria di Bersani, Miguel Gotor. Che sia contestata, anzi platealmente negata dai partiti la possibilità di formare un governo è un’ulteriore manifestazione del blocco del sistema politico che prima delle elezioni di febbraio era stato acutamente previsto. Mi riferisco ad alcuni articoli di Danilo Breschi pubblicati su IdP, in particolare a “Vincendo Bersani, torna Silvio e al governo il Monti bis”.

Dall’impudica enfatizzazione di Bersani e del “cerchio magico del tortellino”(scolpita nella formula solenne “o il mio governo di minoranza o le elezioni immediate”) hanno preso le distanze crescenti esponenti e anime” del Pd, per non parlare dei leader sindacali e confindustriali. È suonato avvilente, oltreché perfettamente irrealistico, che venisse proposta la generalizzazione ad ogni livello delle istituzioni, del metodo di far approvare le leggi col sistema di abbassare il quorum del numero legale facendo uscire a frotte dalle aule parlamentari il maggiore numero possibile dei votanti sollecitando il ricorso alle astensioni o alle dichiarazioni di dissenso di singoli parlamentari dai propri partiti ecc.

Lo spettacolo dato dal Pd è stato umiliante, cioè il suggerimento di scambi, baratti, macro e micro-compensazioni con la degradazione della politica a merce, e del parlamento a mercato. Per questa strada intessuta di accorgimenti e mezzucci si è arrivati al ridicolo. Da una parte, si è offerto al Pdl la guida di una Commissione per le riforme costituzionali. Dall’altra, contemporaneamente, allo stesso partito si è negato ogni titolo per fare parte del governo. Salvo la possibilità di approvare atti e provvedimenti del governo in maniera clandestina, trasversale. Sperduti come pecore matte nell’oscurità del voto segreto. Si tenga presente che stiamo parlando del Pdl, cioè del partito che ha ottenuto quasi lo stesso numero di voti del Pd (precisamente l’0,3% in meno).

Con esso il Pd ha escluso di poter mai più governare dopo l’esperienza ritenuta fallimentare del governo Monti. È il caso di rilevare come tale verdetto di condanna sia avventato, assomigli ad una sparata propagandistica. Basta ricordare che Alfano e Bersani in un anno hanno approvato il più alto numero di decreti-legge su materie economiche e sociali delicatissime della storia dell’Italia repubblicana. Grazie ad essi, nel bene e nel male, il nostro Welfare è stato radicalmente modificato, insieme alle condizioni di lavoro, ai livelli di occupazione (mai scesi così in basso) di giovani e meno giovani, al modo di costituire le pensioni e l’assistenza.

In terzo luogo, i documenti programmatici redatti dai due comitati dei “saggi” scelti il 30 marzo da Napolitano, insieme a personaggi vicini al centro-destra erano composti in prevalenza di studiosi e politici vicini al polo centro-sinistra. Essi hanno convenuto che “non esistono divisioni irreparabili o conflitti irrisolvibili tra le forze politiche” (Napolitano), cioè questioni laceranti del Pd, Pdl e Scelta Civica Monti. Anzi, si è, invece, constatata l’esistenza di linee programmatiche condivise, cioè un’agenda di priorità e di iniziative da porre alla base del futuro esecutivo. Esattamente il contrario di quanto hanno sostenuto due fedelissimi di Bersani come Pippo Civati e Miguel Gotor al programma “Z” di Gad Lerner.

Purtroppo Napolitano ha commesso il grave errore di non dare carattere formale all’esaurimento del mandato di formare il nuovo governo affidato a Bersani. Il segretario del Pd, malgrado il plateale fallimento, ha continuato, e continua, a considerarsi investito di esso. Questa ostinazione si spiega col quanto comporterebbe la pubblica rinuncia, cioè essere costretto a comunicare questo esito negativo alla Direzione del suo partito. Poiché esso si sommerebbe alla sensibile perdita di voti, la più elevata degli ultimi 5 anni, realizzata nelle consultazioni di febbraio, Bersani dovrebbe presentarsi al cospetto del gruppo dirigente col saio in mano, cioè come dimissionario. Il modo di governare proposto da Bersani (senza disporre di una maggioranza precostituita) è stato sperimentato dal parlamento liberale e monarchico negli anni Ottanta del XIX secolo dal premier Agostino Depretis, uno di leader della sinistra post-risorgimentale. Si chiama trasformismo.

È uno dei metodi di governo su cui la riflessione di Gramsci e Togliatti, la deplorazione della stampa e della storiografia comunista è stata costante e imperterrita. Anzi sprezzante, quando si è trattato di liquidare come di basso rango il ceto politico liberale e la sua cultura fino all’avvento di Giovanni Giolitti. Per realizzare tale politica di cambiamento, Bersani ha concepito l’idea che qualunque intrigo o inciucio parlamentare possa essere ragionevole e opportuno. Per avere il quadro esatto della situazione bisogna tener conto che l’estrema debolezza della proposta politica di Bersani si è venuta ulteriormente appannando. La preferenza per un governo di scopo, quindi l’idea di un’intesa anche col Pdl su obiettivi programmatici e tempi circoscritti per fronteggiare una crisi economica e sociale tremenda e modificare la legge elettorale è all’ordine del giorno. Non di Bersani, ma di Veltroni, D’Alema, Rosy Bindi, Letta, Renzi, Franceschini, ecc. Per tornare rapidamente alle urne.

Bersani si è illuso di avere trasformato il Pd in una forza altamente coesa e disciplinata. In realtà è ancora un partito-agglomerato (o coacervo), in cui la combinazione di cattolici, ex comunisti, socialisti ecc., cioè le diverse culture in esso confluite, non è diventata un’unità. Vive di un pluralismo assiepato, non di una ricomposizione unitaria. Il collante per renderla possibile, evitare strappi o sfilacciamenti, e non occasionale, è una replica/parodia del vecchio centralismo democratico. Esso si fondava su una cultura, che era il sostrato del leninismo: un investimento fiduciario di natura quasi religiosa nella crisi del capitalismo e quindi nella rivoluzione (dal quale era animato nel 1977 lo stesso Berlinguer). In assenza di essa, il governo del pluralismo interno si è rivelato assai debole e vulnerabile. Infatti a tenerlo insieme è un apparato che riecheggia atteggiamenti, prese di posizione, reazioni classicamente bulgare (cioè della vecchia tradizione comunista). “l’Unità” è un piatto organo al servizio della segreteria e non del regime che dovrebbe vigere in un partito pluralista quale si proclama il Pd. L’atteggiamento, durante le primarie e successivamente, verso Matteo Renzi mostra che si continua a considerare il dissenso aperto (ammesso generosamente proprio da Bersani), la stessa diversità dall’apparato, come una sorta di effrazione, di apostasia.

Anzi peggio una vera e propria intelligenza col nemico. Consapevole di guidare un partito molto di carta, e di non disporre di un grande personale carisma, Bersani alle elezioni ha imposto che un bel centinaio di parlamentari fossero scelti (cioè nominati, come avviene nel Porcellum) personalmente da lui. La loro fedeltà è declinabile anche per grazia ricevuta. Il dopo-elezioni ha rivelato che Bersani non ha per niente vinto le elezioni, peraltro condotta con una campagna moscia, senza appeal né passione. È stata passata al setaccio la cultura politica, il modo di fare informazione della sinistra. Da 15-20 anni si alimenta di pochade, commedie, campagne di stampa denigratorie, proclami di intellettuali ormai postumi al loro ruolo, ma anche deplorazioni, sarabande accusatorie, ecc. Si chiama berlusconismo, un paradigma costruito ad arte, inventato per demonizzare la parte maggioritaria e vincente della società italiana dal 25 aprile 1945 ad oggi. Il ceto politico moderato, le sue proposte, l’ormai lunga attività di governo vengono identificati in maniera caricaturale in alcuni atti o episodi spesso personali, certamente irritanti, altamente divisivi e conflittuali, concernenti soprattutto i rapporti con la giustizia e la magistratura.

Di fronte alle massicce dosi di anti-berlusconismo di cui da circa due decenni si è fatto dispensatore il gruppo dirigente del Pds e del Pd, in concorso col quotidiano “la Repubblica”, il popolo del centro-sinistra è stato indotto a percepire il centro-destra come il male assoluto. Ora ha di fronte a sé una sola strada: quella di condannare e far fallire, ritirando il proprio consenso a Bersani, ogni eventuale intesa col Pdl.

Alle prossime elezioni sarà celebrata un’ecatombe. A favore di Grillo e dello stesso Berlusconi. Questa consapevolezza di una fine imminente è la sola ragione, non dichiarata ma silenziosamente ossessiva, per cui il segretario e la direzione del Pd respingono ogni proposta di dare un governo condiviso al paese. In via del Nazareno si insiste a voler salvare gli italiani invece dell’Italia. Spira un’aria greve. Da nave incagliata nelle sabbie di un’ultima spiaggia.

 

Commento (1)

  • Pantera
    Pantera
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    Paura? Se fosse vero, sarebbe una benedizione!

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