di Alessandro Campi
Quando, dopo le elezioni del marzo 2018, è nato il governo giallo-verde tre sono stati gli atteggiamenti di massima adottati dal mondo dell’informazione e in generale dall’opinione pubblica: il sostegno incondizionato e acritico al nuovo esperimento, visto in sé come qualcosa di positivo; l’opposizione pregiudiziale, nel timore che fosse invece foriero di grandi pericoli per la nostra democrazia; una ragionevole attenzione (mista a legittima curiosità) non foss’altro per rispetto al voto degli italiani e nella convinzione che in politica si debbano giudicare le azioni e non le intenzioni.
Per chi ha fatto quest’ultima scelta, ispirata al pragmatismo, la Legge di Bilancio era ovviamente la prova più attesa. Proprio perché essa, al netto di ogni propaganda o polemica, avrebbe fatto meglio comprendere la reale natura dell’esecutivo: i suoi obiettivi di politica economica e sociale, la sua visione dell’Italia, le scelte strategiche in grado di dare sostanza alla promessa di cambiamento fatta agli elettori.
La delusione, occorre dire, è stata piuttosto cocente: per il metodo con cui la manovra è stata faticosamente costruita e vieppiù per i suoi contenuti (peraltro destinati a restare incerti anche dopo la sua approvazione, a partire da come verranno modulati i due provvedimenti-chiave in essa contenuti: reddito di cittadinanza e «quota 100» per le pensioni).
Decisamente controproducente è stata, per cominciare, la scelta di affrontare il dialogo con l’Europa – che si sapeva non particolarmente predisposta verso il governo ‘populista’ italiano – con un eccesso di baldanza polemica, salvo doversi poi piegare quasi per intero alle richieste provenienti da Bruxelles. Un confronto che ha rischiato di trasformarsi in scontro e che ha causato turbolenze di mercato che certo non hanno fatto bene alle finanze del Paese e degli italiani. Non parliamo poi del tempo che si è inutilmente perso, tra ripensamenti e ritrattazioni, tra misure annunciate e poi subito dimenticate o stravolte. Per finire con la redazione, al limite del dilettantesco, del maxiemendamento contenente il dettaglio della manovra: presentato al Senato solo ieri e frettolosamente rimandato alla Ragioneria per una nuova vidimatura quando ci si è accorti, mentre ci si apprestava a votarlo, che i saldi contabili inseriti nel documento erano errati. Documento che a questo punto alla Camera non potrà andare in votazione prima del 29 dicembre, ancora una volta ricorrendo al voto di fiducia per evitare il rischio dell’esercizio provvisorio.
Ciò ovviamente apre la discussione su cosa sia diventato il nostro Parlamento: un orpello simbolico, un ente certificatore di decisioni prese altrove, dove ormai non si discute più di nulla. Il che è persino ironico se si pensa che l’accusa classica al parlamentarismo era quella di perdersi in discussioni lunghe e prolisse. Il problema d’un crescente svuotamento delle assemblee rappresentative beninteso non l’ha creato questo governo, essendo una tendenza vecchia di almeno un decennio. Ma un Parlamento inattivo come l’attuale, impegnato solo a ratificare i decreti dell’esecutivo, non si era mai visto. E a chi dice che utilizzando la fiducia e bloccando qualunque discussione in aula almeno si eviterà il classico assalto alla manovra a colpi di emendamenti, spesso frutto delle pressioni delle organizzazioni lobbistiche sui singoli parlamentari, conviene ricordare che queste ultime trovano sempre il modo di farsi sentire. Il maxiemendamento scritto dai tecnici ministeriali sotto dettatura del governo è infatti pieno di misure che sono il frutto di concessioni a realtà associative e produttive d’ogni tipo. Così come è pieno di provvedimenti che hanno un sapore vagamento punitivo verso quelle realtà sociali con cui leghisti e grillini si ritengono, politicamente e culturalmente, in minore sintonia (tipico il caso dei tagli all’editoria e delle penalizzazioni fiscali per gli enti no profit). Il gioco degli interessi, tipico della democrazia, un tempo coinvolgeva anche il Parlamento, oggi la loro mediazione riguarda solo il governo.
Ma per venire appunti ai contenuti della manovra, alle sue scelte di fondo, colpisce come questo governo, a dispetto dello sbandierato cambiamento, si sia mosso in paradossale continuità con la vecchia politica tanto vituperata. Comunque la si rigiri questa Legge di Bilancio ha non solo un’impronta elettoralistica, orientata com’è verso l’assistenzialismo e l’aumento della spesa pubblica non finalizzata allo sviluppo, per non parlare dei condoni fiscali più o meno camuffati da misure a sostegno dei cittadini in mora con l’erario a causa della crisi economica, ma veicola un’idea dell’Italia che sembra certificarne l’immobilismo sociale e la mancanza di dinamismo. Per le imprese, gli investimenti produttivi e l’innovazione tecnologica, per i giovani, la formazione e la ricerca scientifica, quasi non ci sono risorse. Il solo fondo per gli investimenti, annunciato di 9 miliardi, è stato drasticamente ridotto a 3,6 nell’arco di un triennio: davvero poco per rilanciare le opere pubbliche.
A ben vedere, il cuore di questa manovra sono, nemmeno i pensionati (colpiti a loro volta dal taglio dell’adeguamento all’inflazione), bensì i pensionandi, nonché quei cittadini senza reddito che, in mancanza di una politica attiva del lavoro e di una vera ripresa economica, rischiano tuttavia di trasformarsi, soprattutto al Sud, in un esercito improduttivo di assistiti di Stato.
Che si debbano mandare segnali inequivocabili ai propri elettori è scontato: tipico il caso dei tagli sulle cosiddette ‘pensioni d’oro’ sul quale ovviamente batterà la gran cassa della propaganda soprattutto grillina. Ma oltre a chiedersi quale sia la reale efficacia economica di tali misure, oltre l’impatto simbolico nel segno di un egualitarismo punitivo nei confronti di tutto ciò che suona come élites e privilegio connesso allo status, bisognerebbe anche interrogarsi su come creare nel prossimo futuro, senza devastare le casse dello Stato, quella ricchezza che si vorrebbe generosamente distribuire. Su questo versante sembrano mancare le idee. A meno di non pensare che l’Italia possa ripartire grazie all’arrivo massiccio dall’estero dei pensionati ai quali la manovra garantisce aliquote agevolate a condizione che si trasferiscano nei paesi del sud con meno di 20.000 abitanti. Si vorrebbe su questo punto imitare la Spagna, il Portogallo o gli altri paradisi fiscali per anziani sparsi per il mondo. Peccato solo che a questi ultimi non bastino il sole e il cibo buono per vivere bene: hanno bisogno di servizi logistici, di infrastrutture, di assistenza sanitaria domiciliare. Esattamente quello che spesso manca nelle zone d’Italia dove dovrebbero stabilirsi in cambio del taglio delle tasse.
Insomma, da un governo che prometteva tanto è nata una manovra per nulla innovativa e ambiziosa, oltre che scritta male e frettolosamente. E per di più traballante sul lato dei conti: come quei 19 miliardi che si dovrebbero ricavare da privatizzazioni del tutto irrealistiche, se è vero che negli ultimi otto anni le dismissioni del patrimonio pubblico italiano hanno fruttato appena 2 miliardi. Non è un caso che si sia dovuto prevedere, come salvaguardia, un maxi aumento dell’Iva: di 23 miliardi nel 2020 e di quasi 29 miliardi per l’anno successivo. E proprio questo rischia di essere il destino, politicamente letale, del primo governo populista italiano: dover ricorrere – non avendolo fatto nessun esecutivo sino ad oggi – all’aggravio dell’imposta su beni, consumi e servizi per finanziare le loro improvvide promesse elettorali. Sarebbe davvero un bel cambiamento.
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