di Damiano Palano*
Per motivi piuttosto comprensibili, nel corso del XX secolo il termine ‘dittatura’ ha smarrito, almeno nel linguaggio comune, il significato originario, ed è passato a indicare semplicemente un regime autoritario guidato da una personalità più o meno carismatica, in cui i cittadini sono privati delle libertà civili e dei diritti politici. È invece proprio al significato classico della ‘dittatura’ – e cioè alla magistratura riconosciuta e disciplinata all’interno dell’assetto costituzionale della repubblica romana, utilizzata in circostanze eccezionali, per la necessità di fronteggiare un nemico esterno, ma soprattutto per sedare le rivolte della plebe e i disordini interni – che ricorre Giulio Sapelli in un suo recente pamphlet per descrivere lo spirito del governo presieduto da Mario Monti, fortemente voluto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e sostenuto da una delle più ampie maggioranze della storia repubblicana italiana. In effetti, il governo di Monti – proprio come la dittatura romana – nasce dalla necessità ‘eccezionale’ di fronteggiare non le armi di un esercito nemico o sedizioni interne, bensì l’assedio dei mercati finanziari. Se sul ruolo effettivamente giocato dal governo ‘tecnico’ sarà possibile esprimere un giudizio solo nel momento in cui saranno chiari gli esiti di questa operazione, Sapelli, nel suo L’inverno di Monti. Il bisogno della politica (Guerini e Associati, pp. 73, euro 8.00), esprime invece una valutazione molto critica non tanto sull’esecutivo, quanto sulla filosofia che ne ha ispirato la formazione. In sostanza, Sapelli critica la convinzione del principale artefice del governo Monti, ossia del Presidente della Repubblica, che, ricercando una soluzione ‘tecnica’, avrebbe rinunciato a percorrere una strada realmente ‘politica’, l’unica in grado di offrire uno sbocco significativo alla situazione critica del Paese.
Al di là di una simile valutazione, l’analisi di Sapelli è estremamente interessante perché colloca l’attuale crisi politica ed economica italiana al culmine di una stagione che ha rotto con un tratto caratterizzante della storia unitaria del Paese. In effetti, la tesi alla base dell’intera lettura di Sapelli è che la storia d’Italia sia sempre stata «un intreccio di storia nazionale e internazionale» (p. 9): in altre parole, in tutti i momenti cruciali della storia italiana i destini del Paese non si decidono solo per effetto di dinamiche puramente interne, ma – come in occasione dell’unificazione, della presa di Roma, o del passaggio a un regime democratico dopo la Seconda guerra mondiale – sempre in una costitutiva interazione con quanto avviene al di fuori dei confini. Qualcosa di simile avviene naturalmente anche per la Germania, le cui sequenze storiche seguono per molti versi specularmente quelle italiane. Ma questo cammino parallelo si interrompe bruscamente con il 1989, perché da quel momento – scrive Sapelli – «la Germania ritrova la sua temuta centralità economica e trasforma l’unione monetaria europea in una vittoria pacifica sul continente» (p. 13). E perché, in quello stesso momento, l’Italia rompe l’intreccio tra nazione e internazionalizzazione che aveva contrassegnato il proprio cammino più che secolare.
A ben vedere, secondo Sapelli l’intreccio tra nazionale e internazionale non è mai stato particolarmente virtuoso sotto il profilo economico, e anzi è stato spesso ‘vizioso’, nel senso che spesso ha comportato attacchi alla posizione dell’Italia nella catena internazionale della divisione del lavoro, e dunque lo smantellamento di quelle attività che consegnavano potenzialmente all’Italia risorse competitive rilevanti. Sapelli si riferisce, per esempio, agli attacchi sferrati contro Adriano Olivetti dalla Fiat e da Mediobanca, o alla vicenda umana e politica di Enrico Mattei, oltre che al recente smantellamento della siderurgia a ciclo integrale e della chimica etilenica. Pur all’interno di questa costante connotazione ‘viziosa’ del rapporto fra ‘nazionale’ e ‘internazionale’, Sapelli intravede però una cesura netta nella storia repubblicana recente. «Il governo e il sistema emerso con Berlusconi alla metà degli anni Novanta del Novecento» – secondo Sapelli – ha infatti segnato «una profonda cesura con il nesso tra storia nazionale e storia internazionale», perché in questo caso «il versante nazionale ha prevalso su quello internazionale» (p. 21). Le cause di una simile inversione di rotta scaturivano sia dal contesto politico globale, e cioè dal disorientamento immediatamente successivo alla caduta dell’Urss, sia dalla consunzione del sistema dei partiti e di quella sorta di regime cleptocratico che fu la ‘Prima Repubblica’ degli anni Ottanta. Ma, insieme a questo, ciò che innescò la rottura del nesso fra nazione e internazionalizzazione furono le caratteristiche di quel blocco sociale che si coagulò intorno a Forza Italia e al suo leader. «Si scontrava», scrive Sapelli, «il modello fondato sulla piccola impresa e sul lavoro in frantumi […] con il legame internazionale subalterno, non solo sul piano economico, maturato in lunghi decenni. Il mercato unico europeo mascherò tale a-sincronia, ma non poté farlo a lungo. Proprio il rapporto con la Germania non poteva che portare la differenza dei modelli di crescita a uno scontro irreversibile» (p. 25). Per quanto il legame fra nazione e internazionalizzazione continuasse a sopravvivere formalmente, garantito dal progetto dell’unificazione monetaria, in realtà sul versante politico si delineava una frattura profonda, che rifletteva d’altronde la specificità di un modello di crescita e di un blocco sociale che non poteva che risultare – nella propria stessa ossatura – strutturalmente ‘anti-tedesco’: «che cosa hanno a che fare gli attori economici che un tempo vivevano di svalutazioni competitive ora impossibili, con il sistema economico-sociale tedesco? Si tratta di piccole e piccolissime imprese (che sono un patrimonio meraviglioso di virtù del lavoro, di creatività, di amore per le persone che in forma dipendente in essa lavorano), di proliferazione di lavoro autonomi, ma anche di precarietà del lavoro, di lavoro nero, di aumento dei differenziali di crescita fra Nord e Sud, di espansione dell’illegalità mafiosa nonostante la lotta condotta da segmenti importantissimi dello stato contro di essa, di evasione fiscale» (p. 32). Contro questo blocco sociale doveva prendere forma un altrettanto magmatico blocco, formato da un numero esiguo di grandi attori economici internazionalizzati, e sorretto dal Pd, dalle formazioni centriste, e persino dai sindacati dei lavoratori, i quali proseguivano così una trasformazione già avviata negli anni Settanta, destinata a indebolire sempre più il legame con il mondo operaio. Ed è per tutti questi motivi così che veniva allora a rovesciarsi, secondo la lettura di Sapelli, la relazione fra classe operaia e ceti medi: in effetti, mentre quelli che lo storico definisce come «ceti medi parassitari» si spostavano politicamente verso il centro-sinistra, la classe operaia (e i gruppi legati alle attività produttive) si orientavano verso il polo «antipolitico». Ma la contrapposizione fra questi due blocchi sociali, alla base del sistema della ‘Seconda Repubblica’, doveva fatalmente essere travolta dalla crisi economica, la quale peraltro si limitava a portare al pettine tutti i nodi aggrovigliati di un ventennio. In particolare, la piccola impresa, uno dei vettori storici dello sviluppo economico italiano, in un quadro segnato dalla rigidità monetaria non risultava più in grado di produrre crescita. Mentre, al tempo stesso – e questo è un punto su cui Sapelli insiste con forza – lo Stato, l’unico attore in grado di offrire una spinta propulsiva all’economia – veniva privato di qualsiasi risorsa d’azione, per effetto di un’azione combinata di delegittimazione politica e di appropriazione delle risorse pubbliche condotta dalla classe politica. Come sintetizza Sapelli a questo proposito: «quella macro-rigidità si accompagna a un fanatismo istituzionale e ideologico liberistico, che impedisce a un nuovo capitalismo monopolistico di stato di costituirsi come vettore supplente e sussidiario a favore di quella debolezza prima evocata. Questa è stata la conseguenza più nefasta della cleptocrazia delle classi politiche e del loro neo-patrimonialismo: hanno distrutto lo stato amministrativo e ne hanno fatto lo stato dei partiti e l’hanno spogliato delle sue prerogative imprenditoriali, spoliazione in cui non a caso si è distinto più di tutti Romano Prodi e il suo blocco di potere: di quello stato, che un tempo era uno stato imprenditore e virtuoso, non è rimasto più nulla» (pp. 36-37). E benché i governi presieduti da Berlusconi cerchino di ricostruire un legame fra nazionale e internazionale, la politica italiana risulta fallimentare sotto questo profilo perché si mostra del tutto incapace di cogliere con realismo la partita in atto in Europa. Ciò risulta evidente – nella lettura di Sapelli – soprattutto nel rapporto con la Francia: se per riequilibrare il modello economico europeo centrato sulla fisionomia dell’economia tedesca l’Italia avrebbe dovuto cercare di costruire un asse con Parigi (e dunque concedere qualcosa, in termini di acquisizione di risorse italiane), in realtà si è proceduto nel senso opposto. E, così, si è rafforzata proprio la guida tedesca dell’Unione, fatale per la fragile struttura imprenditoriale italiana.
Il superamento di un simile stallo richiederebbe, per Savelli, una svolta radicale, sia sul piano interno, sia su quello internazionale. Innanzitutto, a livello europeo l’unico modo di uscire realmente dalla crisi consisterebbe nel passare da una politica deflattiva e una politica inflattiva, e dunque in una netta riduzione della rigidità monetaria. Ma ciò richiederebbe una complessiva ridefinizione anche degli equilibri politici interni, e ed è invece su questo punto che il severo giudizio di Sapelli coinvolge la «dittatura» di Monti. «Il professor Monti», scrive Sapelli, «è la quintessenza della morte dell’ideologia. È il superamento della medesima nel mondo iper-uranico della foresta pietrificata delle idee, ma nel contempo è l’esponente del blocco poliarchico italico organicamente europeo» (p. 55). Inoltre, la «dittatura» di Monti riflette «una situazione di condizionamenti a cui è sottoposto il potere parlamentare da parte di un potere non parlamentare ma misto, tecnocratico-parlamentare» (p. 57). Il punto è però che questa dittatura non pare avere alcuna realistica possibilità di fronteggiare una situazione segnata dal progressivo allontanamento degli Usa dal teatro europeo, oltre dall’assenza di qualsiasi baricentro. «Tutto è instabile, tutto rischia di rovinarci addosso. E proprio in questa situazione il Presidente della Repubblica Italiana pensa di sortire da essa con una sorta di imitazione delle dittature romane» (p. 67). Invece di ricercare una soluzione ‘politica’, Napolitano ha imboccato la strada ‘tecnica’, e «la conseguenza di questo rifiuto della soluzione politica è stata non soltanto l’aumento della sofferenza sociale, ma l’emergere di una ‘crudeltà istituzionale’ sino a oggi inusitata» (p. 70).
È forse ancora troppo presto per giudicare l’operato del governo Monti, anche se è probabile che molte delle attese che l’opinione pubblica ha nutrito nei confronti di questo esecutivo finiranno con l’essere deluse, per il semplice fatto che si trattava di attese irrealistiche. D’altronde, il governo presieduto da Monti finirà con l’essere ricordato come una sorta di governo Badoglio: un governo in fondo privo delle possibilità di rovesciare una situazione irrimediabilmente compromessa, eppure in qualche misura indispensabile per salvare almeno un minimo della credibilità perduta dinanzi ai partner europei. In questo senso, le critiche indirizzate a Napolitano appaiono forse eccessive, non tanto perché il Presidente della Repubblica non abbia più di qualche responsabilità nell’aver indirizzato la soluzione della crisi politica (e forse anche nell’aver tardato a prendere atto dello stallo), quanto perché sarebbe stato realisticamente molto difficile riuscire a imboccare davvero la strada indicata da Sapelli con le forze politiche presenti oggi in Parlamento, senza pagare al tempo stesso il prezzo di una totale perdita di fiducia presso gli altri paesi dell’Unione. Ciò nondimeno, il quadro analitico delineato da Savelli appare largamente convincente, a dispetto della sua drammaticità, e forse sarebbe indispensabile partire proprio dagli elementi che segnala per ripensare al ventennio del ‘post-Tangentopoli’. Sarebbe infatti necessario prendere atto che proprio nel quadro definitosi nel passaggio fra il 1992 e il 1994 si sono gettate le basi del declino italiano, un declino che in quel momento non era scontato, ma che la combinazione di alcuni fattori ha reso in fondo inevitabile. In effetti, proprio le privatizzazioni della metà degli anni Novanta e la demolizione dell’amministrazione pubblica, condotte sotto il velo delle suggestive formule della ‘liberalizzazione’, della ‘semplificazione’, di un ‘federalismo’ (presunto), dell’efficienza meritocratica, si sono combinate con l’accettazione di un quadro europeo destinato a soffocare l’economia italiana, nella convinzione – ai limiti della criminale ingenuità – che per favorire la competitività del Paese fosse sufficiente trasformare intere generazioni di giovani in un esercito di precari a vita.
Probabilmente, il potere seduttivo della ‘tecnica’ – inevitabile contrappasso per un Paese che ha consegnato per decenni il proprio destino a professionisti del ‘dilettantismo politico’ – è ormai destinato a un rapido logoramento, i cui segni sono d’altronde già piuttosto visibili. E, in questo senso, è davvero difficile non riconoscere un fondamento all’invocazione della politica formulata da L’inverno di Monti, perché in effetti la «dittatura» dei ‘professori’ può soltanto rappresentare un rimedio a una crisi eccezionale, ma non può certo indicare la strada per un nuovo assetto costituzionale. Guardando all’odierno panorama italiano, è però difficile individuare anche soltanto i contorni di una possibile nuova costituzione materiale, che non rifletta la condizione magmatica della società italiana di oggi. Senza dubbio, assisteremo a quella ridefinizione dell’offerta politica che molti auspicano, e che segnerà la conclusione dell’ingloriosa parabola della ‘Seconda Repubblica’. Ma in una società ridotta a ‘mucillagine’, priva di qualsiasi fiducia e lontana da qualsiasi progettualità, è molto difficile capire ‘cosa’ e ‘chi’ davvero potranno rappresentare i nuovi partiti. E, soprattutto, è difficile anche solo immaginare quale nuovo soggetto possa avere la forza – sul piano interno, e su quello internazionale – per affrontare davvero la prospettiva di un declino che appare come sempre più irrimediabile.
* Professore associato di Scienza politica nell’Università Cattolica di Milano e membro dell’Istituto di Politica.
Commento (1)
M.V.C.
“In una società ridotta a ‘mucillagine’, priva di qualsiasi fiducia e lontana da qualsiasi progettualità”, esiste una minoranza di giovani e meno giovani, non appartenenti a categorie di privilegiati, che avrebbero il coraggio, la cultura, la capacità, la fantasia, la necessità, la volontà di crescere con il proprio paese, ma non avranno mai questa possibilità.