
di Damiano Palano

Anche se i due non ebbero mai più alcun incontro, probabilmente non cessò mai il loro dialogo ‘nascosto’. È questa almeno la tesi che sostiene da tempo Heinrich Meier, docente all’Università di Monaco e curatore dell’edizione tedesca delle opere di Strauss. Nel suo Carl Schmitt e Leo Strauss (Cantagalli) mostrava infatti come le critiche del giovane filosofo avessero indotto l’autore del Concetto di ‘politico’ a rivedere le proprie posizioni originarie. Nella Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica, da poco tradotto in italiano (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00), torna più ampiamente su questa tesi, cercandone una verifica nell’intera riflessione dello studioso di Plettenberg. In particolare, mostra come la provocazione di Strauss indusse Schmitt a rivedere la propria valutazione di Hobbes. Secondo Strauss, l’autore del Leviatano doveva essere paradossalmente considerato come il fondatore ‘illiberale’ del liberalismo. E Schmitt – che in precedenza aveva accolto senza riserve la lezione hobbesiana – si rese conto di non poterne recepire per intero la visione. Tutta la riflessione schmittiana aveva infatti preso le mosse dall’indignazione contro l’«epoca della sicurezza», contro la hybris degli uomini che mettono il calcolo dei propri interessi al posto della provvidenza divina. Ma, promettendo sicurezza in cambio di libertà, di fatto l’operazione di Hobbes aveva invece innescato proprio quella ‘depoliticizzazione’ che il liberalismo avrebbe portato a compimento.
La lettura di Meier si sofferma anche su un altro aspetto importante. A suo avviso, nel ‘dialogo nascosto’ con Strauss, Schmitt fu indotto almeno in parte a esplicitare le premesse ‘teologiche’ della propria riflessione. Sezionando l’intera opera schmittiana, Meier sostiene così che la Teologia politica per Schmitt non fu semplicemente una chiave per cogliere la struttura dei concetti politici. La Teologia politica coincise per lui anche con una visione della politica saldamente radicata nella fede nella verità rivelata. E in questo si distingueva radicalmente dalla Filosofia politica, rivolta invece a rispondere alla questione del giusto solo sulla base della «saggezza umana». Anche la concezione che riconduce il ‘politico’ alla distinzione tra ‘amico’ e ‘nemico’ avrebbe allora come fondamento il dogma del peccato originale. Per non impegnarsi in una discussione teologica, secondo Meier Schmitt non esplicitò però mai le più profonde matrici del proprio pensiero. La sua autentica Teologia politica può così solo essere ‘intuita’ a partire da passaggi occasionali (peraltro dal significato non sempre univoco). Ed è probabilmente anche per questa ambiguità che – nonostante l’interpretazione di Meier risulti suggestiva, e in molti casi davvero convincente – il ‘mistero’ di Schmitt è destinato a rimanere senza soluzione, avvolto in una coltre impenetrabile di allusioni, occultamenti, giustificazioni.
* Questa recensione al libro di Heinrich Meier, La Lezione di Carl Schmitt. Quattro capitoli sulla distinzione tra Teologia politica e Filosofia politica (Cantagalli, pp. 343, euro 22.00) è apparsa su “Avvenire” il 16 novembre 2018.
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