di Federico Donelli
Sono durate poco più di sei settimane le consultazioni per la formazione del nuovo governo israeliano che per la prima volta dal 2006 non vedrà al suo interno nessun membro di partiti ultra ortodossi. Una scelta che, sconfessando le previsioni della vigilia, annuncia un esecutivo tendenzialmente moderato rivolto alle molte e delicate questioni interne piuttosto che concentrare le proprie attenzioni sulle crescenti minacce oltre i confini del Paese.
Alla preesistente coalizione elettorale composta dal Likud guidato da Benjamin Netanyahu e dal partito nazionalista Yisrael Beiteinu dell’altro “falco” Avigdor Lieberman, si sono uniti due partiti di centro (Atid, Hatnua), uno nazional-religioso (Jewis Home) e la grande novità nel panorama politico israeliano, il partito laico (Yesh Atid) guidato dall’ex presentatore televisivo Yair Lapid, fresco di nomina a Ministro delle Finanze.
Il partito Yesh Atid si è distinto in campagna elettorale riuscendo a far convogliare i favori di un elettorato laico e moderato stanco della situazione di stallo totale sulle molte riforme di cui lo Stato avrebbe bisogno e di governi troppo attenti a gestire le relazioni con l’Autorità Nazionale Palestinese – Lapid si è detto più volte favorevole alla Two State Solution – per affrontare problematiche interne alla società israeliana.
Il dato che sorprende è che l’elettorato medio israeliano ha riscoperto l’interesse per la politica, l’affluenza è stata la più alta dal 1999, ponendo al centro delle proprie preoccupazioni le molte questioni interne ancora irrisolte piuttosto che la politica estera da sempre primo punto dell’agenda politica del Likud. Risulta così possibile spiegare l’inaspettato successo dei due partiti – Yesh e Jewish – che più di tutti hanno concentrato la propria campagna elettorale su temi di politica interna. Tra i punti promossi dai due partiti alcuni dovranno portare ad un compromesso con il partito di Netanyahu onde evitare di minare la stabilità futura del nuovo governo. Tra questi vi sono la necessità di una riforma del sistema di istruzione, l’approvazione di una nuova normativa che regoli il rapporto tra Stato e comunità ultraortodosse, la revisione del sistema elettorale con un ulteriore alzamento della soglia di sbarramento per l’ingresso alla Knesset (già alzata dal 2 al 4%) e l’incremento degli sforzi per lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale (Leviatano e Tamar) che potrebbero garantire ad Israele non solo una fondamentale indipendenza energetica ma anche di diventare uno dei principali esportatori del Mediterraneo.
La presenza di una figura esterna al tradizionale universo politico israeliano come Lapid la cui popolarità è in continua ascesa e l’ingombrante personalità di Naftali Bennett leader del partito nazionalista Jewish Home, ridimensioneranno inevitabilmente i piani di politica estera di Netanyahu. Detto questo è comunque difficile che l’agenda di politica estera israeliana subisca grandi cambiamenti. Nonostante le divisioni interne, infatti, tutte le forze politiche del Paese condividono l’idea che le sfide poste ad Israele da diversi Stati della regioni debbano essere prese in maniera seria e come tali, anche se nessuna viene considerata come imminente, gestite in maniera ferma.
L’Iran rimane il pericolo numero uno per Israele nonché il tema su cui Netanyahu ha centrato la propria campagna elettorale nella speranza, frustrata dai risultati del voto, di ottenere una maggioranza forte alla Knesset in grado di appoggiare un eventuale intervento armato contro Teheran.
Il nuovo esecutivo ha dunque portato ad una linea più morbida e fin da subito più propensa alla mediazione e al compromesso sia interno che sul piano internazionale. Una nuova impostazione evidenziata dai discorsi pronunciati in occasione dell’attesa visita in Israele del Presidente americano Barack Obama e concretizzatasi nei giorni immediatamente successivi con le scuse ufficiali al governo turco per i morti della flottiglia destinata a Gaza e con lo sblocco di tutti i fondi destinati all’Autorità Nazionale Palestinese. Piccoli segnali di distensione che riflettono gli umori della società e che potrebbero a breve rilanciare i negoziati diretti tra Israele e l’ANP, grande obiettivo del Presidente Obama da qui al termine del suo secondo mandato.
Negli ultimi mesi le attenzioni israeliane si sono spostate anche sulle aree di confine; a nord – non è un mistero – le forze armate stanno da tempo preparandosi ad un possibile allargamento del conflitto siriano, mentre a sud la poca fiducia nei confronti dell’esecutivo del Presidente egiziano Morsi ha convinto Israele a rafforzare i controlli e le recinzioni nelle zone di confini.
In questo quadro, il disgelo dei rapporti con la Turchia avviato sotto la supervisione statunitense, consente potenzialmente ad Israele di provare a gestire il progressivo deteriorarsi della situazione siriana che minaccia aree sensibili per entrambi i Paesi.
Il nuovo corso politico israeliano che, secondo molti osservatori avrebbe confermato la tradizionale linea intransigente di Netanyahu e del suo partito, è in realtà iniziato attraverso scelte inaspettate che portano a smussare posizioni fino ad oggi intransigenti non solo in politica estera ma anche per ciò che concerne le riforme interne. Senza distogliere l’attenzione dal contesto regionale è presumibile che il nuovo governo Netanyahu presto riaprirà a possibili negoziati con l’ANP; negoziati che dovranno passare inesorabilmente dal ridimensionamento dell’influenza di Hamas, possibile solamente ridando legittimità e credibilità all’azione di Abu Mazen.
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