di Alessandro Campi

Nel futuro del Partito democratico – come ha ricordato Giovanni Sabatucci sul “Messaggero” del 1° settembre – ci sono soltanto due nomi: Matteo Renzi e Enrico Letta. Divisi dal luogo d’origine e dunque, visto che siamo il Paese dei campanili e delle fazioni, da antiche inimicizie municipali: uno è infatti fiorentino, l’altro pisano. Divisi dall’ambizione, visto che entrambi perseguono il medesimo obiettivo politico: il governo dell’Italia alla guida di una maggioranza di centrosinistra. Ma accomunati dal fatto di essere due esponenti, di nuova generazione, della tradizione cristiano-democratica, o se si vuole due post-democristiani. Anche in questo caso con qualche piccola differenza, che attiene l’apprendistato politico e il carattere: il primo ha un tratto popolaresco e un profilo militante, un temperamento schietto e irruento, che richiamano alcune storiche figure del combattivo e manicheo cattolicesimo fiorentino contemporaneo (a partire da La Pira), il secondo, oltre ad avere una personalità più misurata e sobria (ma tutt’altro che algida), ha un crisma più da tecnocrate o da uomo di establishment che gli deriva, oltre che da ragioni famigliari e dal suo percorso di studio, dall’essersi politicamente formato alla scuola di un democristiano sui generis quale l’economista Beniamino Andreatta.

La novità, rispetto al recente passato, è che nel futuro del Partito democratico, per quel che attiene la sua guida e dunque la linea politica che dovrà caratterizzarlo, non c’è alcun esponente – vecchio o giovane – dell’area riconducibile per li rami al vecchio Pci, vale a dire a quella componente del Pd che ha sempre ritenuto, forte della sua storia e della qualità dei suoi uomini, di poter (e dover) imporre la propria egemonia politico-ideologica e organizzativa sull’area del centrosinistra. Il primo segretario nazionale del Pd, nato nell’ottobre del 2007 dalla confluenza dei Democratici di sinistra, della Margherita e di altri soggetti minori, fu infatti Walter Veltroni: uno dei “ragazzi di Berlinguer”, formatosi per interno nei ranghi della federazione giovanile comunista. Dopo l’interregno di Dario Franceschini, rimasto al vertice del Pd per nemmeno dieci mesi, fu eletto segretario Pierluigi Bersani: un solido rappresentante della componente comunista emiliano-romagnola, pragmatica quanto si vuole, ma ideologicamente rimasta sempre assai ortodossa. La sua segreteria è stata la più lunga, quasi tre anni e mezzo, ma come quella di Veltroni si è conclusa traumaticamente: in entrambi i casi le lotte intestine, uno dei mali endemici del Pd sin dalla sua costituzione, si sono sommate ai contraccolpi determinati dai cattivi risultati elettorali. L’attuale reggente del partito, Guglielmo Epifani, si è assunto il compito – come a suo tempo Franceschini – di gestire la scadenza congressuale che dovrà stabilire i nuovi rapporti di forza interni.

Un appuntamento, quello della corsa alla segreteria fissata (salvo sorprese) per il prossimo autunno, dal quale il mondo post-comunista appare per la prima volta del tutto tagliato fuori, anche se avrà sicuramente un suo candidato di bandiera. E che potrebbe dunque segnare l’inizio di una fase radicalmente nuova nella vita del Pd: un partito rimasto sin qui schizofrenico quanto alla sua reale natura e alla sua fisionomia programmatica, in bilico come è sempre apparso tra un generico progressismo ispirato a grandi valori ideali e richiami non sempre coerenti alla tradizione del riformismo, impegnato a far convivere senza eccessivi contrasti le sue diverse anime e componenti (socialdemocratica, cristiano-sociale, socialista-liberale, ambientalista), ma che è riuscito a mantenere una sua relativa stabilità grazie ad un apparato burocratico e ad una struttura militante largamente controllati, al centro come in periferia, dall’oligarchia politica d’estrazione comunista.

È contro questo gruppo dirigente (che nell’immaginario collettivo si riassume strumentalmente nel nome di Massimo D’Alema) che sin dal primo momento ha indirizzato i suoi strali Matteo Renzi, denunciandone l’inamovibilità ma soprattutto i ripetuti fallimenti politico-elettorali e l’incapacità a costruire un’offerta politica in grado di attrarre consensi anche al di fuori dei tradizionali confini della sinistra storica. Ma lo stesso Enrico Letta, per quanto egli non abbia mai polemizzato apertamente con la componente ex-comunista del Pd, avendo preferito incalzarla dialetticamente sul piano delle proposte e dell’analisi, è ben consapevole di guidare un governo che è il frutto, oltre che di una eccezionale congiuntura politica, degli errori, delle contraddizioni e delle ambiguità che hanno contrassegnato l’azione del suo partito sin dalla fondazione e che hanno raggiunto il parossismo negli ultimi mesi della segreteria di Bersani: doveva essere il primo post-comunista alla guida del governo grazie al voto popolare, si è invece dovuto arrendere alla volontà degli italiani, in larghissima maggioranza ancora sospettosi o critici nei confronti di chi proviene da una tradizione come quella comunista.

Una tradizione – per venire alle ragioni che ne spiegano la crisi ormai manifesta – che nemmeno con la nascita del Pd si è messa seriamente e pubblicamente in discussione rispetto ai suoi assunti ideologici, che al massimo sono stato rimossi o negati in modo strumentale, ma non sottoposti ad un vaglio critico; che ha mostrato di possedere una visione sin troppo pragmatica e opportunistica del potere; che nei rapporti col suo storico avversario Berlusconi si è fatta guidare, seguendo l’interesse del momento, ora dal tatticismo ora dall’intransigenza, finendo così per sconcertare e scontentare i suoi stessi sostenitori; che sul tema dirimente della giustizia (decisivo per giudicare gli ultimi vent’anni di storia italiana) non ha mai scelto sino in fondo tra garantismo e giustizialismo; che si è dimostrata oltremodo restia a innovare il proprio personale politico dirigente, oggetto di un ricambio lento e sempre pilotato dall’alto, attraverso lo strumento della cooptazione; che non è mai riuscita ad operare seri strappi con le componenti più conservatrici del sindacato o con quelle più ideologicamente radicali della sinistra, nella convinzione di poter tenere tutto insieme; che si è infine fatta spesso guidare nelle sue scelte da una presunzione di superiorità (intellettuale, politica e morale) che ha finito per alienarle la simpatia di molti italiani oltre a ingenerare fastidio nei suoi stessi alleati e compagni di strada.

Con le rovinose elezioni dello scorso febbraio, il peso di questa componente all’interno del Pd si è così fatalmente e forse definitivamente indebolita: non a caso la sua azione nel partito sembra essere soltanto di interdizione e di disturbo nei confronti dei propri avversari interni, mancandole ormai la forza per elaborare un’idea di sinistra che possa dirsi minimamente originale o innovativa. Il risultato è che persino nelle storiche zone di insediamento elettorale del vecchio Pci, dall’Emilia Romagna alla Toscana, si guarda ormai a Renzi e a Letta come alle uniche due figure in grado di innovare culturalmente e generazionalmente il partito e di dargli una struttura organizzativa meno condizionata dal peso delle correnti e dei vecchi notabili. In grado soprattutto di renderlo elettoralmente attraente anche agli occhi di quegli italiani che, delusi dal berlusconismo, potrebbero essere interessati a votare per una sinistra autenticamente europea, liberale e riformista. In mano egli ex-comunisti, il Pd ha perso o è andato incontro a delusioni cocenti. Con Renzi o Letta potrebbe persino vincere.

 

* Articolo apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 2 settembre 2003 con il titolo Il nuovo volto dei democrat e quell’eredità da superare

 

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)