di Damiano Palano

Gli attacchi che Beppe Grillo rivolge al sistema dei partiti non sono certo una novità dell’ultima campagna elettorale. Per la verità, già nel primo appuntamento pubblico di quello che poi sarebbe diventato il Movimento 5 Stelle, il “V-day” bolognese del settembre 2007, Grillo – con il garbo che da allora in avanti avrebbe contrassegnato la sua retorica – dichiarò che i partiti erano “morti”. E nel corso di circa sei anni ha avuto modo di illustrare con una certa dovizia di particolari cosa intendesse. Per Grillo non si tratta infatti di sostituire i partiti presenti oggi in Parlamento, giudicati responsabili di un fallimento politico. Più radicalmente, si tratta di abbandonare del tutto la forma-partito, che, ai suoi occhi, risulta peraltro condannata dalla stessa trasformazione tecnologica. In Siamo in guerra, scritto a quattro mani con Roberto Casaleggio, afferma per esempio che la Rete determinerà la scomparsa di tutte le forme tradizionali di comunicazione, e che «svanirà gran parte delle strutture gerarchiche che regolano i vari aspetti della società e dell’economia», tra cui naturalmente anche i partiti, i quali «saranno sostituiti dai movimenti» (B. Grillo – G. Casaleggio, Siamo in guerra. La rete contro i partiti, Chiarelettere, Roma, 2011, p. 7). E più di recente, nel dialogo con Dario Fo uscito a pochi giorni dalla scadenza elettorale, torna a dichiarare, dissolvendo ogni margine di dubbio: «Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente» (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere, Roma, 2013, p. 79).

Sebbene l’efficacia retorica di questa critica non possa sfuggire a nessuno (e diventi tanto più seducente, quanto più il potere sovrano viene percepito come distante dalla volontà popolare), è piuttosto evidente anche il paradosso in cui ogni discorso ‘antipartitico’ è destinato a imbattersi. Una testimonianza quasi paradigmatica di un simile paradosso è stata offerta, nei giorni scorsi, dalla polemica innescata da Grillo a proposito della necessità del mandato imperativo. Attaccando nel suo blog il divieto di mandato imperativo, enunciato solennemente nella Carta costituzionale italiana, e richiedendo in seguito le dimissioni di quei senatori che hanno ‘tradito’ le direttive del gruppo, il comico ha infatti rivisitato – più o meno consapevolmente – un motivo classico del pensiero anti-partitico, ma ne ha anche portato alla luce una delle più laceranti contraddizioni.

Fino a buona parte dell’Ottocento, una forte avversione al riconoscimento della legittimità dei partiti proviene infatti dalla convinzione che il politico di valore non possa essere imbrigliato da alcuna ‘caserma intellettuale’, e che solo i mediocri possano accettare di sottostare alla disciplina dei partiti. L’idea che il deputato debba utilizzare tutte le proprie qualità migliori nel corso del dibattito parlamentare permea d’altronde la concezione classica della rappresentanza. Una concezione in virtù della quale il corpo elettorale non deve inviare nelle assemblee legislative i propri ‘delegati’, ma deve scegliere i ‘migliori’, i quali – senza alcun vincolo di mandato, e dunque senza tener conto degli interessi ‘particolari’ di coloro che li hanno effettivamente eletti – si adopereranno con tutte le loro forze per perseguire l’interesse dell’intera nazione. Sebbene siano spesso formazioni piuttosto fluttuanti e del tutto prive di rilevante radicamento territoriale, i partiti esistono già anche nei parlamenti ottocenteschi, quantomeno perché si delineano stabili connessioni – più o meno ‘onorevoli’ – tra i rappresentanti. E proprio dinanzi a questa realtà, sempre più difficilmente negabile, inizia a prendere forma – ma in modo molto accidentato – la problematica legittimazione del ruolo dei partiti. Al principio del XX secolo compaiono però prepotentemente sulla scena i nuovi partiti di massa. E la situazione non può che mutare completamente, perché inizia a emergere un altro tipo di vincolo, che limita fortemente l’effettiva libertà del parlamentare e che configura, secondo alcuni, una nuova forma di mandato imperativo. Non un mandato che vincola il rappresentante al mandato del collegio di provenienza o dei grandi sostenitori che hanno contribuito alla sua elezione, ma un mandato che vincola il parlamentare al partito: ossia, a quell’organizzazione che, di fatto, ha conquistato il monopolio del rapporto con i cittadini, e che può dunque decidere chi è realmente meritevole di essere eletto. In altre parole, si passa dal rapporto diretto fra elettori e deputato, a un rapporto pressoché esclusivo fra elettori e partito, col risultato che il cittadino non sceglie effettivamente i propri rappresentanti, ma solo il partito, l’ideologia di cui si fa portatore, il simbolo che incarna. Proprio al partito viene dunque interamente delegato il compito di scegliere coloro che rappresenteranno la nazione nelle aule parlamentati. E, probabilmente, il partito non sceglierà davvero i ‘migliori’, ma solo i più fedeli, coloro che offrono maggiori garanzie di obbedienza alla leadership.

Cogliendo le implicazioni di questa trasformazione, Giuseppe Maranini, già nei primissimi anni della Repubblica, iniziò a mettere polemicamente in luce come il ruolo centrale assunto dai partiti di massa andasse a sovvertire la logica della rappresentanza politica. In altre parole, come scriveva, i partiti erano ormai diventati padroni di decidere chi poteva andare a occupare gli scranni parlamentari, e questo faceva sì che il rappresentato fosse di fatto dipendente dai vertici dei partiti: “Esistono ormai solo i gruppi, col mandato imperativo delle direzioni dei partiti. La rappresentanza di interessi si sostituisce alla cosiddetta rappresentanza politica e cioè alla sintesi politica. E nella forma peggiore: non le oneste rappresentanze di interessi di categoria, interessi chiaramente dichiarati e tuttavia subordinati allo stato; ma equivoche rappresentanze di interessi non identificati, camuffate di maschere ideologiche, e padrone dello stato” (G. Maranini, Miti e realtà della democrazia, Comunità, Milano, 1958, p. 121).

La polemica di Maranini era ispirata da una visione probabilmente un po’ romantica della stagione liberale della rappresentanza, oltre che da una mai sopita aspirazione a una rappresentanza corporativa. E la sua instancabile battaglia contro la «partitocrazia» e contro la nuova forma di mandato imperativo – una polemica destinata a durare per un ventennio, fino al momento della scomparsa di Maranini, nel 1969 – doveva per questo apparire come ‘conservatrice’, se non addirittura come ‘reazionaria’, dinanzi a un quadro in cui i “moderni principi” erano celebrati come pilastri del regime democratico. In realtà, una posizione come quella di Maranini non ha però un’unica colorazione politica. E, a ben vedere, non è affatto sorprendente che la difesa della libertà del parlamentare contro ogni vincolo partitico sia stata inalberata dai più diversi schieramenti politici, e sia stata piegata nel corso degli anni agli utilizzi più differenti. In un paese a marcata vocazione trasformistica come l’Italia, il divieto di mandato imperativo enunciato solennemente dalla Costituzione è stato infatti invocato per protestare contro l’assenza di democrazia interna ai partiti, o per sostenere la decisione di alcuni parlamentari di non sostenere un governo ormai percepito come lontano dai propri principi, oppure – come è pressoché scontato – per giustificare le più bieche e utilitaristiche operazioni di cambio di casacca. E, puntualmente, ogni volta che qualcosa di simile è accaduto – basti pensare ai casi opposti, ma in fondo speculari, dell’uscita di Franco Turigliatto e Fernando Rossi dalla maggioranza che sosteneva il governo Prodi nel febbraio 2007, o alla fuoriuscita di Gianfranco Fini dalla coalizione di centro-destra nel 2010 – si sono levate grida di scandalo. Grida che ogni volta – senza differenze di condotta rilevanti tra un partito di più o meno sbiadita matrice leninista e un partito di sbandierata tradizione liberale – hanno indirizzato la loro protesta contro il ‘tradimento’ del mandato degli elettori.

In realtà, la tensione fra le due diverse posizioni – che sono effettivamente opposte – è per molti versi insanabile. A meno di non modificare la norma che vieta il mandato imperativo, il deputato, una volta eletto, è infatti del tutto libero di cambiare legittimamente bandiera. L’unico modo per limitare questa possibilità consiste nella costruzione di partiti solidi. In altre parole, la formazione di una gerarchia interna e di meccanismi di controllo che vincolino effettivamente il parlamentare al rispetto della disciplina di partito rimane il solo modo (relativamente efficace) per evitare che i gruppi parlamentari si trasformino in consorterie del tutto fluide e in perenne mutamento, alla ricerca di posti di governo e sottogoverno in cambio di sostegno politico. O, per dirla ancora più brutalmente, che la libertà di pensiero del deputato finisca col trovare la sua unica – e certo non lusinghiera – rappresentazione nel più retrivo ‘scilipotismo’.

Anche per questo, nonostante la polemica antipartitica sia un elemento costitutivo del Movimento 5 Stelle, il destino paradossale – ma probabilmente inevitabile – di questa formazione è così di tramutarsi in un partito. Sebbene Grillo non perda occasione di tuonare contro i partiti e di inneggiare alla democrazia diretta della Rete, l’unico modo di cui dispone per poter conservare un controllo sui parlamentari eletti è proprio quello di costruire un’armatura partitica che protegga dalle tensioni centrifughe che nel corso del tempo emergeranno. Il modello del ‘partito in franchising’ – in cui il controllo del ‘marchio’ e della comunicazione nazionale è gestito dal vertice dell’organizzazione, e in cui ai diversi ‘concessionari’ è assegnato solo un ruolo di mobilitazione a livello locale – non può infatti resistere dinanzi all’esistenza di una rappresentanza parlamentare. Perché Grillo non può più avere un monopolio assoluto della comunicazione nazionale del M5S, perché i parlamentari sono sottoposti a un pressoché costante assedio giornalistico, e perché è molto probabile che – presto o tardi – l’ingenuità, il narcisismo o la legittima rivendicazione della propria libertà spinga qualcuno dei senatori e dei deputati pentastellati a deviare dalla linea ufficiale. E, d’altro canto, sono stati sufficienti i primi due giorni della legislatura per far affiorare le prime lacerazioni, a proposito della condotta da tenere in occasione dell’elezione del Presidente del Senato.

Dato che è piuttosto plausibile che la tentazione ‘trasformista’ contagi anche qualcuno dei nuovi parlamentari del M5S, e che si faccia più insistente con il passare del tempo, è altrettanto probabile che la necessità di trasformarsi in partito diventi sempre più impellente per la nuova formazione. Naturalmente è difficile immaginare come – e quando – questa trasformazione possa effettivamente compiersi. Ma le diverse opzioni possibili non sono prive di implicazioni per la fisionomia futura del M5S. In effetti, non è sufficiente darsi un’organizzazione strutturata, perché l’organizzazione deve essere a sua volta tenuta insieme da qualche elemento non puramente formale. E, in linea molto generale, i partiti hanno finora trovato le basi per garantire la coerenza interna solo in tre elementi, fra loro piuttosto differenti: l’ideologia, le rendite politiche, la leadership. In altre parole, alcuni partiti (e soprattutto i vecchi partiti di massa) sono tenuti insieme da una forte componente ideologica, da un solido tessuto identitario, magari da una tensione utopica; altri partiti – quasi tutti i ‘partiti di cartello’ contemporanei – sono resi relativamente compatti dall’attesa che i vari leader hanno di ottenere cariche e risorse pubbliche, da redistribuire fra i propri seguaci; e altri ancora sono aggregati dalla personalità carismatica del leader, che – anche senza un’ideologia strutturata – è capace di tenere sotto controllo le rivalità interne e conservare l’eterogenea combinazione dei seguaci.

Ovviamente questa classificazione non ha nulla di scientifico, e non è inoltre da escludere che una formazione politica possa attingere contemporaneamente a tutti i tre tipi di risorse. Ma il punto è che il M5S si trova dinanzi a una scelta pressoché obbligata. Evidentemente, almeno non in tempi stretti, non può infatti optare per la strada delle rendite politiche, e cioè per la redistribuzione di cariche e finanziamenti pubblici (diretti o indiretti, leciti o illeciti), se non altro perché in questo modo rischierebbe di violare palesemente i principi su cui è nato e grazie ai quali ha ottenuto il proprio successo elettorale. Il Movimento potrebbe invece dotarsi di un’ideologia più strutturata, di un repertorio identitario, di rituali capaci di rafforzare la coesione e in grado, soprattutto, di consolidare una rete di militanti a livello territoriale. Una simile strada non è però priva di ostacoli e di incognite, sia perché edificare dal nulla un patrimonio identitario richiede tempi piuttosto lunghi e non garantisce risultati certi (è sufficiente pensare all’iconografia ‘celtica’ elaborata dalla Lega Nord negli ultimi quindici anni), sia perché in questo caso rimarrebbe del tutto in questione il ruolo di Grillo, oltre che del suo alter ego Casaleggio. È allora molto probabile che la risorsa cui finirà con l’attingere Grillo per dare coerenza al M5S e alla sua pattuglia parlamentare sarà il proprio carisma: una risorsa straordinariamente efficace nel mantenere la coesione di un movimento, e soprattutto di un movimento che punta a rivoluzionare completamente il mondo politico. Anche se, ovviamente, non si tratta di una risorsa immune da qualche rischio.

Oltre a essere un formidabile fattore di coesione, il carisma del leader – come diceva Weber – è infatti una risorsa fragilissima: una risorsa sempre sul punto di esaurirsi, e che deve essere dunque costantemente alimentata dall’entusiasmo dei seguaci e da nuove sfide. Da questo punto di vista, non è allora sorprendente che Grillo punti a nuove elezioni a breve. Nonostante – come ha dichiarato – abbia il terrore di dover governare, e benché sia molto probabile che tema un nuovo successo elettorale del M5S, l’unica opzione che ha di fronte è una nuova battaglia elettorale: una nuova battaglia in cui possa rilanciare l’offensiva contro il ‘vecchio’, contro i partiti, contro il fallimento della Seconda Repubblica. Solo tenendo alta la temperatura dello scontro, può riuscire infatti a mantenere la coesione interna ai gruppi parlamentari pentastellati e porre un argine alle tentazioni trasformistiche o di appoggio esterno a ‘esecutivi autorevoli’. E – vale la pena ricordarlo – solo in questo modo Grillo può continuare ad attirare l’attenzione dei media nazionali, che altrimenti tenderebbero a raccogliere le voci degli esponenti parlamentari del M5S, e a non ascoltare l’eco tonante del ‘megafono’ del Movimento.

Chiedendosi cosa veramente muova Grillo, Pierluigi Bersani ha avanzato il sospetto – ma forse è qualcosa di più – che l’ex comico ricerchi solo il ‘potere’. Naturalmente, raccogliendo la provocazione di Bersani, ci si potrebbe chiedere cosa spinga gli altri leader politici, perché appare davvero poco credibile che a guidarli siano davvero – come amano sovente ripetere – soltanto nobili intenti come l’amore per il loro paese, la passione per il bene comune, la volontà di perseguire l’interesse nazionale. Ma, se è probabilmente è opportuno affidare simili domande allo studio della ‘psicopatologia’ della leadership, rimane invece più che doveroso chiedersi a cosa punti realmente Grillo. Forse solo la storia potrà fornirci una risposta. Ma non è affatto da escludere che Grillo non abbia in realtà nessun obiettivo, o che quantomeno non abbia obiettivi di medio-lungo periodo. Probabilmente, il fondatore del Movimento 5 Stelle si è soltanto innamorato del suo ruolo di leader ‘rivoluzionario’, e si è convinto di rappresentare la causa di una trasformazione radicale. Nonostante non abbia forse ben chiaro dove possa condurre questo mutamento, né quali passi ciò imponga concretamente dal punto di vista politico, come ogni leader rivoluzionario sa bene che la ‘rivoluzione’ non ammette compromessi o gradualità, perché una rivoluzione che si è arresta a metà è sempre una rivoluzione sconfitta.

Così – benché sia quasi impossibile fare previsioni su ciò che accadrà in Italia, in Europa e nel mondo nei prossimi mesi – è facile immaginare che Grillo continuerà a tener fede al proprio personaggio. Che, dunque, non si accontenterà della ‘rivoluzione di febbraio’, ma che – come una sorta di Lenin redivivo, e un po’ caricaturale – punterà tutto su una nuova ‘rivoluzione d’ottobre’. E che la ‘guerra’ che si combatte in Europa rischierà di rendere persino credibile ciò che solo alcuni mesi fa appariva solo come un incubo fantapolitico.

 

 

 

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