di Alessandro Campi
Centocinquantanove anni fa, come ieri, nasceva il Regno d’Italia. Con una legge d’un solo articolo, Vittorio Emanuele II assumeva il titolo di Re D’Italia. Dal 1911, la data del 17 marzo è diventata festa nazionale: l’anniversario di un’unità nazionale che territorialmente s’è compiuta solo con la fine della Grande Guerra ma che sul piano politico e del sentimento collettivo secondo alcuni non si è mai realizzata per intero.
Ieri, per ricordare la ricorrenza,
di Alessandro Campi

Centocinquantanove anni fa, come ieri, nasceva il Regno d’Italia. Con una legge d’un solo articolo, Vittorio Emanuele II assumeva il titolo di Re D’Italia. Dal 1911, la data del 17 marzo è diventata festa nazionale: l’anniversario di un’unità nazionale che territorialmente s’è compiuta solo con la fine della Grande Guerra ma che sul piano politico e del sentimento collettivo secondo alcuni non si è mai realizzata per intero.

Ieri, per ricordare la ricorrenza, non ci sono state celebrazioni ufficiali, non consentite dall’emergenza sanitaria, ma solo dichiarazioni delle autorità: enfatiche per definizione ma anche cariche di un pathos autentico. L’unico tocco festoso è stata l’illuminazione notturna col tricolore di statue e monumenti. In realtà, mai come in questi giorni di dolore e apprensione si sono viste così tante bandiere esposte e sentite così tante dichiarazioni di fierezza nazionale. Un sentimento spontaneo e liberatorio delle tensioni che un’intera comunità sta accumulando, al quale si sono uniti – ed è una bella cosa – anche molti giovani sin qui poco avvezzi a maneggiare le parole e i simboli dell’amor patrio.

È un patriottismo rifiorito grazie a un concorso drammatico di circostanze. Il riflesso difensivo d’un Paese che nel momento acuto del bisogno, invece di ricevere aiuti e solidarietà concreta, s’è visto prima messo ai margini dalla comunità internazionale (tenuto a distanza persino dagli alleati europei) e poi aggredito dalla speculazione, come se s’aspettasse l’occasione per depredarlo. L’isolamento forzato che si è dovuto imporre a tutti gli italiani nelle loro case, privandoli della loro innata socialità. La paura incontrollabile che comporta dover combattere una guerra, come ci si ostina a rappresentarla con abuso di metafora, contro un nemico invisibile e proprio per questo assai subdolo. La sensazione finalmente diffusasi che in una simile emergenza le divisioni tra Nord e Sud, tra centro e periferia, tra Stato e Regioni, tra destra e sinistra contano davvero poco: se non ci si salva insieme il danno sarà pesantissimo per tutti.

Infine, l’orgoglio: prima ferito dal sentirsi trattare come appestati e poi ritrovato grazie allo spettacolo d’una nazione che, dinnanzi all’avanzare del contagio, sta davvero dando il meglio di sé, con generosità e dedizione, pur tra ritardi e indecisioni che stavolta non si sa davvero a chi addebitare se non all’eccezionalità della situazione.

Il senso di comunità, è risaputo, si rafforza soprattutto nei momenti di smarrimento collettivo. Quando anche il più accanito degli individualisti, dinnanzi al buio e all’incertezza, cerca un Noi che lo protegga e rassicuri. Si comprende dunque questo patriottismo che sorge dall’angoscia e dal desiderio di non sentirsi soli in frangenti tanto cupi. E dunque va bene, persino commuove, l’inno nazionale cantato dai balconi, magari mescolato ad altre canzonette che fanno comunque parte del nostro immaginario popolare.  Va bene il garrire di bandiere che si vede per le strade delle città, probabilmente le stesse che furono sfoggiate l’ultima volta che i nostri Azzurri, di qualunque disciplina, vinsero qualcosa. Va bene ripetersi, una certezza più che un augurio, “ce la faremo” e “andrà tutto bene”: in cuor nostro l’Italia è pur la signora con la cornucopia e lo stellone, l’abbondanza e la buona sorte, che un’antica iconografia ci ha lasciato in eredità e che sino alla penultima generazione era famigliare a tutti gli italiani.

Ma sarebbe bello, ecco il punto, se questo sentimento patriottico – oggi certamente genuino ed evocato con passione – fosse meno intermittente e meno legato o ai nostri momenti di sciagura collettiva o ai fasti effimeri che seguono le vittorie sportive: perché non provare ad essere italiani, senza impennate retoriche ed esibizionismi sguaiati, anche nei momenti normali e tranquilli, quando è comunque richiesto – se si fa parte di una comunità e se ne condividono per davvero storia e valori – comportarsi, soprattutto nell’impegno professionale e nella vita civile, con responsabilità, onestà, spirito altruistico e senso della dedizione?

Sarebbe bello altresì se i richiami accorati alla concordia nazionale che oggi vengono dai partiti fossero la base costante della nostra vita pubblica, nella misura in cui l’unità d’Italia e il senso di appartenenza ad essa, per chi ci crede davvero, dovrebbero andare oltre le partigianerie o le divisioni imposte dalla lotta politica. Come il richiamo all’Italia non può essere appannaggio di una parte politica contro l’altra, come spesso è a accaduto e ancora accade, così dell’Italia come patria e come storia comune non ci si può ricordare solo quando la politica non sa che pesci prendere.

Il patriottismo, in altre parole, per essere credibile, cioè politicamente efficace e socialmente unificante, dovrebbe essere un senso del Noi continuo e permanente, ancorché silenzioso: non dunque un sentimento da esibire alla bisogna, al quale richiamarsi solo nei momenti di sconforto, ma la trama emotiva del tessuto sociale, capace di ispirare negli individui (e, va da sé, in chi li governa) comportamenti virtuosi e come tali rispettosi dell’interesse generale.

Il rischio altrimenti, specie per un popolo che ha una storica tendenza ad oscillare tra dissacrazione e melodramma, tra sentimentalismo e retorica, tra anarchismo e conformismo, è quello di passare rapidamente, in modo vacuo e incosciente, senza alcun senso della misura, dall’insofferenza verso ogni causa comune all’esaltazione nazionalistica, dal tricolore vilipeso nel nome del proprio “particulare” (ideologico o territoriale) al tricolore indossato come un’armatura, dall’anti-italianismo per eccesso di auto-denigrazione e di auto-flagellazione all’italianismo che sconfina nel buffonesco degli stereotipi che secolarmente ci sono stati appiccicati addosso.

Stiamo vivendo giorni difficilissimi, ma il peggio passerà – perché gli italiani, oltre che ottimisti tenaci, sono anche un popolo reso coriaceo da sofferenze e privazioni che vengono da lontano e di cui ancora si porta il ricordo. Torneranno giorni normali, ordinari e felici, durante i quali sarà bene ricordarsi dei vantaggi ma anche dei doveri che comporta essere, come individui, parte di una comunità. Soprattutto sarà bene ricordarsi che non si può essere patrioti – o cittadini con senso dello Stato – a comando o secondo convenienza. Lo si è, sobriamente, nel bene e nel male, sapendo che per fortuna il primo vince, se non sempre, spesso.

 

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 18 marzo 2020

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