di Alessandro Campi
Sull’assegnazione a Milano e Cortina dei giochi olimpici invernali del 2026 ci sarebbe molto da dire. Riguardo le positive ricadute, economiche e d’immagine, che un simile evento può determinare nel corso degli anni se ben organizzato e ben gestito. Il che equivale a non nascondersi – alla luce di certe cattive esperienze del recente passato – il pericolo che i costi programmati finiscano per lievitare oltremisura e che nella realizzazione delle opere s’intrufolino la criminalità e la corruzione. Ma questi sono discorsi da fare nelle prossime settimane, quando passata la giustificata euforia per il successo della candidatura italiana si comincerà a lavorare concretamente al progetto messo a punto dal comitato organizzatore (e ancora in gran parte da dettagliare).
Per il momento limitiamoci a un paio di considerazioni d’ordine generale. Quel che questa vicenda spiega bene, per cominciare, è che dal punto di vista politico la negazione del buongoverno non è il malgoverno, ma il non governo. La differenza politicamente rilevante non è tra chi opera guardando al bene comune e chi persegue il proprio tornaconto utilizzando la ricchezza pubblica (questo è un manicheismo tipico della propaganda populista, nella realtà si possono benissimo fare le due cose insieme). Ma tra chi agisce e decide accettando il rischio di fare male o di compiere errori (questa è la politica intesa in senso proprio). E chi invece preferisce l’inerzia, la rinuncia, il non fare, la dilazione nel tempo di qualunque scelta giudicata troppo impegnativa: un atteggiamento tipicamente anti-politico e che peraltro non annulla, come si crede ingenuamente, il pericolo della corruzione o dello spreco di denaro.
Come è noto, nella celebre allegoria di Ambrogio Lorenzetti, visibile nel Palazzo Pubblico di Siena, come cause del cattivo governo si trovano indicati tre vizi, che nell’affresco volteggiano in forma umana sopra il governante-tiranno: l’Avarizia, la Superbia e la Vanagloria. Se ne potrebbe indicare un quarto: l’Insipienza che produce immobilismo. E che quasi sempre nasce dalla mancanza di coraggio, di volontà, di virtù e di capacità.
Milano e Roma sono oggi l’esemplificazione massima di questi due atteggiamenti: il fare (stimolato dall’ambizione e dalla disponibilità a rischiare) contrapposto al non fare (per paura di dover affrontare una qualche sfida e con la rinuncia colpevole a qualunque occasione). La città guidata da Giuseppe Sala, proponendosi con determinazione come sede per le Olimpiadi invernali, ha scelto la strada dell’attivismo e dell’intraprendenza. La città guidata da Virginia Raggi, con la rinuncia a candidarsi per le Olimpiadi del 2024, ha invece preferito la strada dell’inazione con la scusa (intrisa di facile demagogia) che era preferibile occuparsi dell’ordinaria amministrazione piuttosto che sprecare risorse in eventi che avrebbero favorito economicamente i soliti (e come sempre indefiniti) ‘poteri forti’.
Il risultato, come si può vedere, è che Milano corre sempre più veloce, mentre Roma arranca faticosamente e perde sempre più di capacità competitiva rispetto alle altre capitali europee. In questo diverso ritmo non c’è ovviamente alcun fatalismo storico-antropologico, come talvolta si dice ricorrendo ai soliti stereotipi da barzelletta: la frenesia meneghina che guarda al soldo opposta all’indolenza capitolina che preferisce la vita placida. E’ piuttosto una questione di visione progettuale e di capacità individuali, che alcuni politici hanno e che ad altri mancano scarseggiano. Peccato solo che a pagare il prezzo di queste mancanze siano al dunque i cittadini. E, nel caso di Roma, l’Italia intera.
Ma come detto c’è una seconda considerazione da fare a margine di quest’assegnazione. Come interpretare l’esplosione di patriottismo sportivo che ha seguito la notizia che l’organizzazione dei giochi sarebbe toccata al nostro Paese (ma lo stesso potrebbe dirsi per l’entusiasmo suscitato dalla nazionale femminile di calcio)? Come una forma di nazionalismo innocuo e sentimentale che nulla a che vedere con la dimensione politica o come la conferma che le appartenenze collettive di tipo statual-nazionale hanno ancora un carattere vincolante e dirimente? Siamo stati felici e orgogliosi come italiani (del nord, del centro e del sud) o si è trattato di un giubilo individuale affidato allo sventolio di un tricolore nel quale ci si riconosce ormai solo per abitudine e inerzia?
In tempi di sovranismo – esibito da alcuni come l’unica ideologia sopravvissuta alla morte delle ideologie, denunciato da altri come una forma di regressione civico-culturale – sarebbe utile chiedersi, ad esempio, se l’identità nazionale, considerata la sua capacità di resistenza e la sua pervasività nella routine sociale degli individui, sia da considerare per forza incompatibile con la visione di un mondo allargato e sovranazionale. Si può essere europei convinti ma al tempo stesso ci si può considerare diversi dagli svedesi, della cui sconfitta – ancorché sul piano sportivo – ci siamo così compiaciuti. Il particolare dovrebbe sempre poter convivere con l’universale, dal momento che quest’ultimo esiste solo perché esiste il primo.
L’idea che l’Italia sia una “casa comune” nella quale convivere e collaborare indipendentemente dalle divisioni d’ordine politico-ideologico (il progressista Sala ha patriotticamente gioito insieme ai leghisti Fontana e Zaia) porta anche a chiedersi se aver regalato alla propaganda populista la difesa – in chiave retorico-identitaria e spesso con troni aggressivi – dell’idea di nazione non rappresenti un errore politico che da solo basta a spiegare l’arretramento elettorale dei partiti conservatori, cattolico-liberali e di sinistra riformista. Tutti oggi tengono alla difesa delle identità soggettive e individuali. Perché non si assegna la stessa importanza anche a quelle collettive (a partire da quella nazionale)?
A meno di non pensare che lo sport sia rimasto l’unico ambito nel quale è socialmente accettabile sventolare le bandiere e rivendicare l’esistenza di un “Noi” nazionale fondato su una qualche comunanza di storia, lingua, abitudini e costumi. Patrioti ferventi e appassionati sulle gradinate, membri anonimi del villaggio globale appena usciti dallo stadio? Per fortuna, il mondo reale non funziona (ancora) così. L’ideale collettivo nazionale, per quanto negletto o talvolta vilipeso, continua ad alimentare l’immaginario politico-sociale anche nell’epoca cosiddetta post-moderna. Magari un giorno le cose cambieranno radicalmente, perché nel frattempo saranno nate nuove forme d’aggregazione autenticamente sovranazionali, ma a quel punto anche le Olimpiadi saranno diventate un patetico ricordo del passato e “W l’Italia” un grido di battaglia incomprensibile.
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