di Angelica Stramazzi
La deadline naturale è quella del 2013, data in cui il governo tecnico guidato da Mario Monti dovrebbe esaurire la funzione per la quale era stato designato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo le dimissioni dell’ex premier Berlusconi: mettere riparo alla tragica situazione economica (e politica) in cui, sul finire dell’anno precedente, versava il Paese. L’avventura di quello che lo stesso Monti definì un “governo strano” era partita sotto i migliori auspici e propositi, e così è stato fino ad un certo punto. Ossia fino a quando la riforma del lavoro, inizialmente prospettata dal Ministro Fornero, ha subìto i veti incrociati di alcune sigle sindacali, snaturando la sua essenza originaria: quella di porre fine ad un mercato del lavoro sclerotizzato in cui, a fronte di una estrema flessibilità in uscita, non fa purtroppo seguito una dose equivalente di elasticità in entrata, con la conseguenza che i giovani restano ai margini di un sistema che sembra non volerli prendere in considerazione, e i più (anagraficamente) navigati mantengono ben salde le posizioni acquisite nel corso degli anni. In questo scenario, la “strana maggioranza” che sostiene il governo Monti dibatte sulla necessità o meno di chiudere la stagione dei tecnici al potere, convinta che il ricorso alle urne potrebbe porre fine alla preoccupante emorragia di voti e consensi emersa con tutta evidenza dopo le amministrative del maggio scorso.
Tra le varie opzioni prospettate dai partiti, il ricorso alle liste civiche sembra andare per la maggiore: le formazioni partitiche tradizionali, fortemente burocratizzate al loro interno e radicate sul territorio potevano andar bene nel secolo scorso, quando il cittadino/elettore, non avendo ancora a disposizione strumenti come il web o la rete, vedeva nel partito un punto di riferimento, un canale privilegiato per far sì che le proprie istanze potessero entrare nelle stanze dei bottoni. Ora non è più così: la democrazia digitale, piaccia o no, è una realtà con cui tutti, e ancor di più i nostri politici, devono fare in conti. Se quindi il Partito Democratico è alle prese con la definizione delle modalità di svolgimento – e selezione dei candidati – delle primarie interne, nel Pdl si discute dell’eventualità che Berlusconi torni in campo. Non più quindi padre nobile del partito del predellino, ma giocatore a tutti gli effetti. A questo punto non si capisce bene che ruolo assumerebbe Alfano, se di sfidante di Berlusconi nelle primarie che il centrodestra sembra voler mutuare dal centrosinistra, o se di semplice spettatore della competizione. Quello che invece non sembra attuabile – o quantomeno riproponibile – è una versione rivisitata e corretta di quello che fu Forza Italia nel ’94. Le ragioni sono essenzialmente due. Ciascun partito nasce e cresce in base alle necessità del momento storico in cui viene ad esistere: la sua forza e la sua peculiarità dipendono dalla sua capacità di rappresentare determinati bisogni che, ça va sans dire, non restano cristallizzati con il passare del tempo e la conseguente evoluzione sociale. A ciò va aggiunto il fatto che un’organizzazione partitica che si rispetti non può fare a meno, se ha a cuore la sua stessa sopravvivenza, di legare il proprio progetto alle novità dettate dal mondo della tecnologia e dell’informazione – è difficile, ad esempio, che il volantinaggio politico riesca ad attirare nuove leve, le quali sono invece maggiormente attratte dal mondo del web 2.0.
La rigenerazione dei partiti, al netto delle pulsioni populiste e demagogiche, dovrebbe avvenire su basi solide e su proposte serie, possibilmente condivise dalla maggior parte dei dirigenti e degli aderenti ad un certo gruppo. Rincorrere soluzioni estemporanee ed evanescenti non serve, né all’Italia né al futuro della nostra democrazia.
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