di Danilo Breschi

Un Antonello Venditti appena quattordicenne scriveva e cantava in romanesco, rivolgendosi idealmente a sua nonna: “A Sora Rosa me ne vado via, / ciò er core a pezzi pe’lla vergogna, / de questa terra che nu mm’aiuta mai/ de questa ggente che te sputa n’faccia, / che nun’ha mai preso na farce in mano, / che se distingue pe’ na cravatta. / Me ne vojo annà da ′sto paese marcio, / Che cià li bbuchi ar posto der cervello, / che vò magnà sull’ossa de chi soffre, / che pensa solo ar posto che po’ perde”. Poi, poco prima della fine della canzone, confessava: “Sai che te dico, io mo’ me butto ar fiume, / così finisco de campà sta vita / che a poco a poco m’ha succato l’occhi / più delle pene de Satana immortale”. E, in conclusione, l’invocazione di un riscatto, individuale e collettivo: “Annamo via, tenemose pe’ mano, / c’è solo questo de vero pe’ chi spera, / che forse un giorno chi magna troppo adesso / possa sputà le ossa che so’ sante”.

Al di là del preciso riferimento autobiografico, ad un livello più generale e astratto, questa stupenda ballata popolare, la prima in assoluto scritta dal cantautore romano, oggi forse tra le meno note (certo, tra le meno eseguite in concerto) del suo ricco repertorio, ci parla di un’infanzia e di un’adolescenza segnate dalla rabbia e dalla invidia sociale. È frequente che producano risentimento, ma anche senso di giustizia, la tarda infanzia e la prima adolescenza, battute e sferzate, come sono, da violenti venti di guerra interiore, dove il primo affacciarsi al mondo esterno si compie con l’occhio inondato dal disagio personale di una crescita umana ogni volta uguale e ogni volta difficile, ogni volta che un essere umano abbandona lo stato di bambino e si getta a capofitto sul limitare della “linea d’ombra”.

Ma non è sempre così, e non è sempre l’unica via che apre il cuore di quel che poi si suole chiamare artista o intellettuale, o creatura umana comunque dotata di quelle antenne sensibilissime che sono privilegio e condanna, al pari delle ali dell’albatros baudelairiano, ali al contempo ingombranti e “da gigante”. Ce lo ha insegnato più di tutti Albert Camus, lo scrittore che ebbe a dire di sé: “Non sono un filosofo, infatti, e so parlare soltanto di quello che ho vissuto: il nichilismo, la contraddizione, la violenza e la vertigine della distruzione. Nello stesso tempo, però, ho accettato con gioia la capacità di creare e l’onore di vivere”.

Nato cent’anni fa, Camus, prima della precoce morte per incidente stradale nel 1960, visse nei decenni più terribili della storia europea e, per certi versi, dell’intero pianeta, se si pensa solo alla dimensione pressoché mondiale della lunga guerra 1939-1945. Decenni di totalitarismi trionfanti, poi sconfitti ma solo a metà. All’indomani del 1945, fuori il nazismo, ancora dentro il comunismo staliniano, rapida calava la cortina di ferro e il mondo si divideva nei due campi della Guerra Fredda. Dal 1949 fu tra i promotori di un’organizzazione che si proponeva di fornire aiuto materiale ai dissidenti dei regimi comunisti dell’Est, delle colonie africane in esilio e delle dittature militari, mentre poco dopo avrebbe lasciato il posto all’UNESCO a causa dell’ingresso nella stessa organizzazione della Spagna franchista (1952), ammessa nel 1955 anche all’ONU. Camus non si piegò dunque alla logica della Guerra Fredda e della scelta per il “male minore”. Ne conseguì per lui un isolamento, un’estraneità rispetto all’establishment politico e culturale francese ed europeo, nonostante il Nobel e le alte tirature dei suoi saggi e romanzi.

La pubblicazione nel 1942 del romanzo “Lo straniero”, il titolo, la trama e la forma narrativa usata hanno generato l’equivoco di un Camus esistenzialista, affratellato con Sartre. Il momento storico e il clima culturale nel quale uscì il romanzo lo collocarono automaticamente nel filone esistenzialista, dilagante nella Francia di quegli anni di transizione tra occupazione nazista e liberazione alleata. Si trattava solo di una coincidenza e di una fase passeggera. Lo stesso scrittore, durante un dibattito dopo il conferimento del Nobel per la letteratura (1957), avrebbe infatti riconosciuto il proprio debito verso gli antichi Greci, che lo avevano filosoficamente “marchiato”, dichiarandosi estraneo a quei filosofi tedeschi del diciannovesimo secolo da cui l’esistenzialismo aveva ripreso in abbondanza temi e tonalità emotiva.

L’assurdo con cui lo “straniero” Mersault, protagonista del romanzo, si scontra è solo un punto di partenza, non di arrivo, ci ricorda giustamente Raniero Regni in un recente studio dedicato allo scrittore franco-algerino (“Il sole e la storia. Il messaggio educativo di Albert Camus”, Armando Editore 2012). Sbaglia però Regni, a nostro avviso, a non riconoscere che nel romanzo si fatica a trovare anche il più piccolo gesto, o pensiero, di rivolta (camusianamente intesa). La resa all’assurdo di un destino irrazionale e impersonale pare totale, senza scampo, come nella tradizione tragica greca, con l’aggravante che adesso il cielo è completamente svuotato. Gli dei sono fuggiti da tempo, e nessun Dio pare mai giunto a colmare tale assenza. Nessun segnale, nessun disegno viene da lassù. Resta però vero che in contemporanea all’uscita di quel romanzo inizia una tenacissima ricerca di fuoriuscita dal nichilismo dilagante nella cultura europea uscita devastata ed umiliata dalla seconda guerra mondiale. Un cammino filosofico che lo avvicina, sotto questo aspetto, a Kierkegaard. Dall’estetica all’etica, senza però abbracciare alcuna certezza ontologica ma con una professione di fede nel valore dell’uomo, essente ed esistente. Non è un caso che la pubblicazione del “Mito di Sisifo” sia del 1942, lo stesso anno de “Lo straniero”.

“Il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia”, ha scritto Camus. L’assurdo su cui è stata schiacciata l’intera riflessione camusiana non è affatto l’ultima fermata del lungo peregrinare artistico e intellettuale dello scrittore franco-algerino. L’assurdo è soltanto, si fa per dire, “il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude”; “è la mia nostalgia di unità”, ammette Camus, il quale non sopporta che le cose, dalle più piccole alle più grandi, siano inghiottite dal nulla. Ha ragione Raniero Regni nella lettura che fa dell’autore del “Mito di Sisifo” e dell’“Uomo in rivolta”: c’è un filone aureo che consente di giungere a prelevarne un profondo, ricco e penetrante “messaggio educativo”. È la pedagogia di un filosofo artista, come la definisce Regni.

Camus ha imparato la nobiltà d’animo, scevra da calcoli e convenienze, durante la propria infanzia algerina. Un’infanzia, prima, e un’adolescenza, poi, segnate dalla morte del padre, ucciso nella Grande Guerra, quando Camus aveva solo otto mesi, e dalla presenza di una madre “ritirata per la maggior parte del tempo nella regione notturna dell’esistenza”, come ha scritto Alain Finkielkraut esaminando il romanzo autobiografico pubblicato postumo, “Il primo uomo”. Le bozze, incomplete, 144 fogli manoscritti, furono ritrovate nella valigetta che Camus aveva con sé il giorno del fatale incidente. Un’infanzia orfana, compensata in parte dalla presenza dello zio Gustave, macellaio colto, anarchico e volterriano, e da una nonna arcigna e dispotica. Regni osserva che Camus “non scrive per la madre ma forse a causa della madre”, per decifrare il silenzio di quella creatura illetterata ma dagli occhi prepotentemente eloquenti. Una madre che gli ha insegnato a non invidiare mai, nonostante la povertà della famiglia. La definirà “aristocratica”, come un po’ tutti i componenti della sua famiglia: “Vicino a loro non ho sentito la povertà, l’indigenza o l’umiliazione. Perché non dirlo: ho sentito e sento ancora la mia nobiltà. Davanti a mia madre, sento di appartenere a una razza nobile: quella che non invidia niente”. Il Primo Uomo è il figlio che ritrova il padre morto quando lui era bambino. Il Primo Uomo è il fanciullo, la cui innocenza è necessaria a ritrovare la volontà per creare. “Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire sì”, per dirla col Nietzsche che indossa i panni del profeta Zarathustra.

Proprio in quell’opera, alla fine dell’Ottocento, il filosofo-poeta tedesco individuò l’Ultimo Uomo. L’esatto opposto del Primo Uomo camusiano. Ma chi è l’Ultimo Uomo? È “la cosa più spregevole di tutte”, è l’uomo che rende “tutto piccino”, l’abitante del tempo in cui non vi sarà più nessuno desideroso di scagliare “la freccia della sua nostalgia al di là dell’uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare”. L’Ultimo Uomo ricerca solo la propria sicurezza fisica e l’abbondanza materiale. Camus pare, in questo, ascoltare l’invocazione di Zarathustra: “è tempo che l’uomo pianti il seme della sua più alta speranza”. Su questo Camus scriverà fino al romanzo postumo, fino al Primo Uomo, figura scavata in quel legno antico con cui sono state fatte le vite, pur diversissime tra loro, di suo padre e di sua madre, della sua famiglia, della sua infanzia e adolescenza. E il Primo Uomo non è “al di là dell’uomo”, né Superuomo né Oltreuomo, ma Uomo, soltanto Uomo, né poco né troppo umano.

La rivolta di Camus è contro la notte del nichilismo che avvolge ogni cosa e cancella pure le ombre, lasciandoci credere dell’inconsistenza di tutto, persino nostra. Alla domanda se crede in Dio, il protagonista del romanzo “La peste” risponde: “No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte e cerco di vederci chiaro”. C’è questa lunga profonda e angosciosa notte da attraversare, quella stessa scritta nei versi di Marco Luberti e cantata da Riccardo Cocciante con la sua consueta inconfondibile impareggiabile voce di amore rabbioso, con quell’impeto scatenato in strepitoso crescendo, virile e struggente. Una notte che ti circonda, ti bracca nel momento stesso in cui la cerchi famelico di una morte come porta da sfondare perché spalanchi alla rinascita, dopo la sera che era stata almeno mitigata da una lei: “E poi la notte senza un domani / La notte e tu che sempre mi perdoni / La notte nella stazione / La notte per una nuova illusione / La notte per non restare / La notte per non morire, non morire / La notte per ricominciare / La notte per scappare, per scappare via, via, via, via” (“L’alba”, 1975). Una fuga per la libertà, una distruzione creatrice contro l’annullamento sterile. Il Primo Uomo è sempre fecondo del domani, e l’alba, l’alba “del suo ritorno”, è lì pronta a sorridergli ogni nuovo giorno.

(contributo già apparso su www.danilobreschi.com)

 

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