di Mauro Zampini
Il potere di nomina ad un livello di responsabilità è uno delle parti più difficili dell’amministrare. La politica, che entra più o meno incisivamente nella formazione dell’intera classe dirigente del paese, tende a non saperlo o finge di non capirlo, privilegiando l’aspetto ludico o comunque profittevole del compito e proteggendosi dietro lo scudo di un sommamente malinteso “primato della politica”. Vero e proprio, il primato della politica con la sua innaturale espansione, e penetrantissimo cavallo di Troia in terreni che alla politica dovrebbero essere sottratti. E che peraltro gli invasi – gli amministrati – mettono sovente a disposizione dell’occupante con un atto di offerta che ha spesso forti tratti di impudicizia ,offrendo a piene mani la dote principale che viene richiesta, la fedeltà, in luogo della necessaria autonomia.
Stabilito che l’inadeguatezza del gruppo dirigente, e non solo dirigente, provoca prima o poi il fallimento di qualsiasi organizzazione od impresa, pubblica o privata, forse basterebbe approfondire questo innaturale connubio per venire a capo di tanti problemi del paese.
Nominare, soprattutto in ruoli di complessa responsabilità, richiede in primo luogo una buona dose di umiltà da parte di chi nomina; una professionalità specifica, fatta della conoscenza delle esigenze dell’amministrazione interessata, delle capacità richieste per il ruolo e di quelle possedute dal prescelto o dai prescelti; del bilancio della situazione lasciata dall’uscente, vera e propria guida per riprodurre buone scelte od evitare nuovi errori; della capacità valutativa espressa in direzione dell’interesse collettivo e non del proprio (i conflitti di interesse sono sempre in agguato ,specie in ambito politico).
A giorni, si rinnova il vertice della prima, per dimensioni e peso nella politica nazionale, amministrazione parlamentare. Per molto tempo giudicata la principale responsabilità amministrativa dell’apparato pubblico, anche per il livello retributivo: almeno prima della rivoluzione bassaniniana, stroncata senza approfondimenti dall’ondata rottamatrice di uomini, cose e situazioni. Rivoluzione che partiva dal semplice obiettivo di azionare una competizione virtuosa tra pubblico e privato, difficilmente contestabile, se non per le inevitabili ripercussioni sui livelli retributivi della massime responsabilità dell’impiego pubblico. E facilmente contestata nei fatti proprio per l’occasione sprecata da una politica che fatica sempre a staccarsi dal criterio complice della fedeltà o del proprio tornaconto come requisito principe su cui orientare le scelte personali. Quella rivoluzione, oggi dispersa nei rivoli della imperante demagogia, dovrà tornare, finita la centralità del “quanto guadagni”, a guidare l’individuazione dei futuri dirigenti pubblici, magari con l’introduzione di misure valutative oggettive – che impediscano almeno la sfacciataggine come criterio guida di chi nomina –, a supporto della nomina e a bilancio della stessa, alla conclusione del mandato.
Un collegio di non specialisti, quale è l’ufficio di presidenza della camere, ha la grande carta del buon senso e dell’interesse collettivo, non di una parte o di una persona. Troppo spesso il segretario generale di una delle camere è stato considerato, a torto o a ragione, un uomo (o una donna) del presidente (talora, ahimè, anche viceversa), mentre è tempo che questo rapporto si sbiadisca per lasciare il posto ad una figura di sintesi tra gli schieramenti politici, almeno in tempi di bipolarismo o tripolarismo; quasi sempre è stato scelto in base ad uno specialismo (peraltro diffuso o diffondibile dentro l’amministrazione), quale l’abilità nell’assistenza in aula, anziché per le capacità di guidare un’amministrazione di quasi duemila persone, limitando la presenza in aula ai momenti di massimo rilievo della vita dell’assemblea; altrettanto spesso è stato considerato l’unico riferimento di raccordo tra presidente, corpo politico e corpo amministrativo, con buona pace del decentramento delle responsabilità e della crescita dei futuri dirigenti, in primo luogo del successore; quasi mai viene valutato per la capacità dimostrata di creare una concorrenza a se medesimo, all’interno dell’amministrazione, facilitando la scelta disinteressata del proprio successore; deve essere la garanzia della terzietà assoluta, monacale della struttura, da trasmettere fino all’ultimo dei commessi; è stato infine accreditato di una estensione temporale di mandato di cui nemmeno i pontefici fanno ormai sfoggio.
Buon lavoro.
* L’autore ha guidato l’amministrazione della Camera come Segretario generale dal luglio 1994 alla fine del 1999.
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