di Giuseppe Romeo*

All’ombra delle crisi che hanno investito il Nord Africa e le autocrazie più consolidate nel Medio Oriente, come quella egiziana, libica e siriana, Israele ha ricordato al mondo – suo malgrado – l’esistenza del problema palestinese. L’esistenza cioè di una mai risolta questione dei Territori a partire da un presupposto storico fondamentale: che se l’Israele di oggi si chiamava Palestina già secoli fa era perché l’Israele di oggi era già terra dei palestinesi.

Ma così come Tel Aviv ha rimesso sul tavolo da gioco la Palestina, Erdogan, cercando di colmare un vuoto geopolitico da leadership, ha ricordato il legame storico esistente tra l’Egitto e la Turchia e le affinità che sopravvivono ad una storia imperiale costruita nel corso dei secoli tra Ankara e Il Cairo, le coincidenze riformiste tra i giovani turchi e i riformatori egiziani da Nasser sino a Sadat, i percorsi condivisi delle vie del Medio Oriente, da Ankara verso Baghdad passando per Damasco.

Tuttavia, ciò che sorprende, però, leggendo i quotidiani di questi ultimi giorni e riflettendo sulle argomentate analisi dei migliori commentatori occidentali, è che ci si ricorda solo adesso che esiste la Turchia. Cioè che esiste uno Stato estremamente singolare che unisce la propria storia di erede del più grande impero islamico, quello Ottomano, con la storia dell’Occidente contemporaneo. Una coincidenza straordinaria che fa di Ankara l’unico ponte riformista e l’unico riformatore possibile tra l’Europa e una comunità fortemente cresciuta nel mondo come quella islamica.

Ora, che l’Europa si sia dimenticata della Turchia come attore necessario per ricomporre uno scenario di instabilità che si dilata ogni giorno di più in Medio Oriente e in Nord Africa è a dir poco incredibile. Ma forse non ci si deve meravigliare. L’Occidente soffre da anni di miopie sempre più gravi nei confronti del proprio destino e di ciò che lo circonda: governa perciò la contingenza storica affidandosi ad attori o comparse di comodo la cui fiducia e credibilità appare a dir poco discutibile. Israele, invece, nella sua innegabile forza di imporre la propria politica sui Territori, è consapevole di essere ancora una volta più considerato della Turchia, quest’ultima peraltro membro della NATO, quale proiezione dell’Occidente in Medio Oriente continuando, in forza di tale certezza, a sovrapporre e ad imporre la propria storia su quella altrui, ad affermare un proprio diritto senza riconoscere pari diritti ad altre popolazioni antiche quanto quelle ebraiche.

Date queste considerazioni, leggere analisi sulle dichiarazioni di Erdogan a favore dei Palestinesi di Ramallah potrebbe suscitare curiosità o attenzione. Ma nella posizione assunta dal presidente turco non vi è in realtà alcuna attenzione o curiosità che si giustifichi. E ciò per tre ordini di motivi.

Il primo, perché la Turchia non ha debiti politici nei confronti dell’Occidente dal momento che, pagato il prezzo della disfatta dell’impero Ottomano con la fine della Prima guerra mondiale, essa ha rappresentato il più significativo esempio di democratizzazione progressiva di un Paese a forte maggioranza islamica. Uno Stato moderno realizzato imponendo una cultura laica di governo e la garanzia di alcuni importanti diritti civili.

Il secondo per essere stato (e per esserlo a tutt’oggi) un fedele alleato inserito nella Alleanza Atlantica, alleanza di cui Israele non ne fa parte.

Il terzo, perché è il partner più importante per volumi di consumatori e capacità di commercializzazione dei prodotti dell’Unione europea verso l’Oriente.

Ve ne sarebbe un quarto, però. Vale a dire il fatto che la Turchia è oggi l’unico attore politico e geopolitico capace di colmare il vuoto di leadership lasciato dalle rivoluzioni arabe di questi mesi.

Di fronte a tutto questo, continuare a dimenticare quanto è ben chiaro ad Erdogan, così come lo era per Sadat e Rabin, sarebbe veramente un ennesimo suicidio politico per la sicurezza futura nel mondo occidentale: e cioè che la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso la garanzia di una giusta ed equa pace sociale nelle comunità più povere, attraverso un riconoscimento di autonomia vera e piena alla Palestina risolvendo, una volta per tutte, la questione dei Territori e la rivisitazione di un dogma: l’esclusiva appartenenza di Gerusalemme al solo Stato ebraico.

Se l’Occidente, distratto dai suoi drammi finanziari, dovesse ancora una volta sottovalutare il valore aggiunto di Ankara per una politica democraticamente costruttiva e di apertura, finalizzata a governare il caos mediorientale, tutto questo si trasformerà, allora, nell’ennesima sconfitta. Una sconfitta che, come una nebbia che si dilata, ci avvolgerebbe nelle spire dell’instabilità più diffusa e dell’insicurezza più certa.

* Analista di politica internazionale