di Damiano Palano
All’indomani della scomparsa di Raymond Aron, avvenuta il 17 ottobre 1983, il quotidiano Libération scrisse in prima pagina che la Francia aveva perso il suo prof. Il titolo non era solo il riconoscimento del ruolo che l’intellettuale aveva ricoperto nel dibattito pubblico francese, sebbene per il giornale – allora tribuna della sinistra radicale – fosse stato l’avversario di mille battaglie. Quel titolo efficace riusciva infatti anche a cogliere lo stile di pensiero di Aron, che, come accademico e come giornalista, non aveva mai abdicato al compito della chiarezza e al rigore dei concetti. E una conferma ulteriore di questo stile di pensiero giunge anche dal prezioso volume Teoria dell’azione politica, appena pubblicato in italiano a cura di Alessandro Campi e Giulio De Ligio (Marsilio, pp. 331), che propone in anteprima mondiale il testo inedito di un corso tenuto da Aron al Collège de France nel 1973.
Nelle tredici lezioni in cui si articola il corso si riconosce il clima dei primi anni Settanta. Il tema è, in termini generali, l’azione politica intesa come la scelta strategica dei mezzi più adatti per raggiungere i fini di volta in volta perseguiti. Più che alla strategia di coloro che operano dentro un quadro di regole stabilito, ad Aron interessa però riflettere sulla strategia di quanti puntano a cambiare il regime con una rivoluzione o un colpo di Stato. Gran parte delle lezioni si spinge così a investigare quel determinato tipo di azione politica che si trova nella zona intermedia fra l’azione guerriera e l’azione politica. Ed è proprio in questa chiave che si spiegano le pagine riservate al “genio rivoluzionario” di Lenin e Mao.
Uno degli interrogativi di fondo riguarda la legittimità dei mezzi da adottare per raggiungere gli obiettivi politici. E, da questo punto di vista, Aron è distante sia dal moralismo dei pacifisti integrali (per cui il ricorso ai mezzi di offesa è sempre moralmente illegittimo), sia dal cinismo della Realpolitik (per cui ogni mezzo efficace è lecito). Ma le lezioni rappresentano anche un momento di confronto con la visione del “politico” avanzata da Carl Schmitt. E con tutti coloro che, rovesciando la “formula” di Clausewitz, pensano che la politica rappresenti una prosecuzione della guerra con altri mezzi (e non viceversa). Aron non dimentica come, in un mondo che vive “all’ombra dell’apocalisse nucleare”, la “guerra in merletti” del XIX secolo sia un ricordo lontano. O come, per la proliferazione delle guerre ideologiche, la distinzione fra la dimensione interna e quella internazionale risulti sempre più problematica. Ciò nondimeno, la formula di Clausewitz secondo Aron non può essere rovesciata. Il cuore della politica sta infatti ai suoi occhi nell’esistenza di un ordine legittimo all’interno di una comunità.
Un simile ordine, per disciplinare mediante regole il comportamento dei singoli, implica che vi siano un capo o un gruppo di individui dotati del monopolio della forza coercitiva e in grado di stabilire chi siano i “nemici” contro cui eventualmente impegnarsi in una guerra. Tale ordine deve essere inoltre fondato “su quel che viene chiamato principio di legittimità”. Dentro ogni singola comunità politica, la legittimità si presenta così in modo diverso da come si pone nel contesto internazionale. La legittimità del monopolio della forza è cioè, in una comunità politica, una necessità ineludibile anche per chi prende il potere in modo violento. Proprio per questo l’ostilità verso i “nemici interni” non può essere equiparata a quella verso nemici esterni.
La questione della legittimità della forza non era comunque importante per Aron solo perché i governanti e i conquistatori devono trovare obbedienza. Era importante anche perché è sempre possibile rifiutare di “piegarsi”, esibendo quella specifica libertà che contrassegna i conflitti fra umani. Per quanto ci siano guerre combattute per conquistare un bottino, osservava infatti alla fine del corso, “le guerre davvero umane” sono proprio le “guerre per il riconoscimento”. Il prof allora annotava: “finché le società saranno violente, ci saranno uomini che rifiuteranno di piegarsi”. E non mancava di aggiungere: “Spero che ve ne saranno sempre”.
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