di Leonardo Allodi* e Roberta Iannone**

545651727Nei giorni scorsi, sulle pagine di “Avvenire”, Cesare Cavalleri ha segnalato la pubblicazione in traduzione italiana di due opere, di grande attualità, del grande sociologo tedesco Werner Sombart: il breve saggio “La crisi del capitalismo” (Mimesis, 2016) e i suoi “Saggi sociologici” (Aracne, 2015). Altre traduzioni, e non meno significative, completano il quadro di un interesse persistente, che merita di essere indagato nelle sue ragioni più profonde: “Guerra e capitalismo” (Mimesis, 2015), “Sull’uomo” (Bonanno editore, 2013), “Mercanti ed eroi” (ETS, 2014), “L’avvenire del capitalismo” (Mimesis, 2015). Pochi anni orsono era apparsa la traduzione, nella pregevole edizione della napoletana Bibliopolis, di tre saggi provenienti dal Fondo Werner Sombart (presso il Geheimes Staatsarchiv di Berlino) apparsi con il titolo: “Unità di cultura e costituzione in Europa”. E nel 2006 si era registrata la ristampa del notissimo saggio sombartiano “Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?” (Bruno Mondadori). Alcuni importanti Convegni internazionali dedicati al pensiero di W. Sombart (l’ultimo, riuscitissimo, del 2014, organizzato dall’Università del Salento: “Il Borghese di Werner Sombart: cento anni dopo”, di cui le riviste “Dada” e “Sociologia Italiana. Ais Journal of Sociology” hanno ora pubblicato alcuni interventi), e diverse recenti monografie in lingua tedesca, (Werner Sombart (1863-1941) –Klassiker der Sozialwissenschaften. Eine kritische Bestandaufnahme, Metropolis, 2000; e “Sombarts ‘Moderner Kapitalismus. Materialien zur Kritik und Rezeptionm DTV, 1987), completano un quadro di fronte al quale sembra necessario interrogarsi sul perché di una “Sombart-Renaissence”, e della persistenza di un interesse per un autore ormai riconosciuto come un autentico “classico della sociologia” (da Alessandro Cavalli a Franco Ferrarotti, da Franco Rizzo a Sandro Segre e Bruno Protti, la schiera degli studiosi italiani dell’opera di Sombart è ormai davvero grande).

La spiegazione plurifattoriale della genesi dello spirito capitalistico e, con essa, il ruolo dei fattori religiosi nella storia economica (quale tema di particolare attualità nella crisi tecno-nichilista del capitalismo contemporaneo); la sua ricerca, attraverso l’idea di una “economia programmatica”, di una terza via fra socialismo e liberismo esasperato (una via che non esclude proprietà privata e libertà di azione economica, ma cerca di rifondare un autentico ethos borghese); la riscoperta della dimensione spirituale dell’uomo e della società, il senso stesso di una vocazione europea di tutte le culture nazionali del continente, ed infine, la visione di una scienza sociale “avalutativa”, capace di distinguere fra fatti e giudizi di valore: sembrano queste alcune delle ragioni che possono offrire una spiegazione di questo interesse.

Occorre subito aggiungere, e questo è il secondo interrogativo che si pongono gli studiosi, in che misura sulla recezione del pensiero di Sombart (che studiò a Pisa con Giuseppe Toniolo) abbia pesato l’iniziale adesione al nuovo regime tedesco affermatosi nel 1933, una adesione filtrata e condizionata da un umanesimo di stampo goethiano, che non poteva quanto prima ribellarsi e comprendere l’insensatezza di una tale adesione. Adesione che si concluderà già nel 1936 con una aperta dichiarazione di ostilità ad un regime che si stava rivelando sempre più sanguinario e disumano (io e i nazisti siamo “Totfeinde”, nemici mortali, egli dirà). La stessa rottura con Carl Schmitt appare legata ad una divergenza assoluta di giudizio sul progressivo imbarbarimento criminale del regime nazista, a cui corrispose l’avvicinamento agli ambienti della “emigrazione interna”, in particolare a quell’Alfred Weber (fratello di Max) a cui il regime aveva tolto la Cattedra nel 1933. La più esplicita testimonianza di questa radicale ostilità di Sombart verso l’ideologia nazionalsocialista viene dall’opera del 1938, Vom Menschen, un tentativo di costruire un’antropologia a partire dal pensiero di Max Scheler e E. Husserl (due filosofi ebrei le cui opere saranno ostracizzate dal regime). Come testimonia significativamente il figlio Nikolaus (Jugend in Berlin 1933-1943, pp.15 e sgg.) Werner Sombart giudicava l’hitlerismo “l’opera della distruzione”, l’antisemitismo essendo una assurdità, una malattia, il prodotto di un “sentimento di insufficienza”. E, come oggi sappiamo, Sombart manterrà non a caso numerosi rapporti con ebrei berlinesi: fra i suoi allievi figureranno addirittura personalità come Ben Gurion. Una cultura tedesca senza gli ebrei tedeschi era per Sombart una assurdità: “La loro distruzione non è altro che un atto di autodistruzione” della stessa cultura tedesca, dirà poco prima di morire. Anche per questo la sua opera Gli ebrei e la vita economica verrà proibita dal nazismo. Chiuso in una forma di radicale isolamento, di rifiuto ma anche di rassegnazione, in Marmorklippen di Ernst Jünger, Sombart scorgerà un’opera di resistenza intellettuale al nazismo.

A proposito della cifra scientifica e della istanza umanistica del pensiero di Sombart, il grande filosofo tedesco Max Scheler ci ha lasciato un giudizio nel quale trovano una sintesi perfetta le ragioni di un interesse oggi più vivo che mai: “Nulla è più mortale per una vecchia esperienza di vita, con la quale noi non siamo «venuti in chiaro» che la chiarezza del ricordo che la illumina. La stessa cosa vale per la funzione che oggi la conoscenza storica si accinge a compiere per la struttura dello spirito capitalistico. Dal momento che noi riusciamo a oggettivare dinanzi a noi stessi tale struttura, essa smette di dominarci, sprofonda sotto di noi. L’opera di Sombart, nella quale vive in alto grado, oltre ad una componente conoscitiva, anche questa forza risanatrice della presa di coscienza storica, è un segnale ben visibile del fatto che i giorni del «capitalismo con buona coscienza» sono passati”.

* Università di Bologna (sede di Forlì)

** Università di Roma “La Sapienza”

 

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