di Corrado Ocone
Ove c’è potere c’è congiura. E’ quasi una regola generale della politica. E ove aumenta la lotta per il potere aumentano, in conseguenza, anche le congiure. Valeva nella Firenze medicea in cui visse Niccolò Machiavelli (1469-1527). E vale anche nel mondo contemporaneo. Se non ne siete convinti, se pensate che le cose siano sostanzialmente cambiate, che gli uomini si siano affinati in costumi e siano diventati tutti più buoni, almeno qui in Occidente, gettate uno sguardo su un serial televisivo come “House of Cards”, con i molto verosimili intrighi della lotta di potere americana ivi descritti. O pensate solo un attimo alla congiura, vera o presunta, di cui parla l’ex premier Berlusconi: ordita alle sue spalle per fargli abbandonare Palazzo Chigi e consegnarlo a leader non eletti nelle urne ma graditi a un non meglio definito estblishment.
Ma cosa è propriamente una congiura? Nessuno può aiutarci a capirlo più e meglio del Segretario fiorentino che, pur non essendo mai stato probabilmente, come scrive Leo Strauss, un congiurato in prima persona, alle congiure ha dedicato una costante attenzione. A cominciare da quel capitolo dei Discorsi che ora viene integralmente riprodotto e dà il titolo alla bella raccolta curata per l’editore Rubbettino, con indubbia maestria, da Alessandro Campi: Sulle congiure (pagine 342, euro 18). Nei passi riprodotti, e tratti da opere di differenti periodi, Machiavelli, come dice Campi nell’introduzione, ci offre della congiura sia una fenomenologia sia una teoria. Da una parte troviamo i brani in cui vengono minuziosamente descritte, con crudo realismo, alcune fra le principali congiure dei suoi tempi: da quella del duca Valentino a quella contro Piero de’ Medici (1466), da quella contro Galeazzo Maria Sforza (1476) e alla nota congiura dei Pazzi del 1478.
C’è materiale per un libro mai scritto, ma che, se lo fosse stato, sarebbe stato sicuramente originale. Quanto alla teoria, va osservato che la congiura è per Machiavelli (in questa pagina in un ritratto della metà del XVI secolo ndr) una modalità che si usa quando non si ha la forza o la possibilità di fare “guerra aperta” a un Principe. E’ in quel caso che bisogna usare la tattica della discrezione, o, il più delle volte, dell’ipocrisia più subdola. Non è un caso che la storia sia piena di esempi di congiurati che erano stati gli alleati più fedeli della vittima. E, in molti casi, lo erano ancora nel momento in cui la congiura si realizzava, avendo lavorato sull’effetto sorpresa e colpendo alle spalle. Ma l’originalità vera del modo machiavelliano di impostare la questione sta tutta nell’abbandono da lui compiuto, anche per questa parte, di ogni elemento moralistico o psicologistico, che era il modo canonico con cui per secoli si erano affrontati gli argomenti e le pratiche della politica.
Come Campi sottolinea e riesce a mostrarci, non si tratta di usare l’introspezione per capire le passioni o i moti di animo che spingono i congiurati ad agire un certo modo, né ad ergersi censori o a predicare i buoni sentimenti e le buone azioni predicando contro la corruttela del mondo e l’abiezione morale degli attentatori. Coloro che così fanno o sono in cattiva fede, e probabilmente stanno lì lì per colpirvi o ingannarvi; oppure danno più credito al prossimo di quanto ne meriti; o, ancora, pensano effettivamente che la bontà conquisterà il mondo attraverso la conquista dei cuori. Essi non solo non capiscono la politica, ma, se decidono di agire in essa, si preparano a sicure sconfitte, non riuscendo nemmeno ad affermare il bene a cui pure credono. Guai però a leggere le pagine machiavelliani come ciniche e rinunciatarie. Esse vogliono semplicemente farci capire che a questo mondo nessun pasto è gratis, nemmeno quello della bontà e della giustizia fra gli umani. Chi non lo capisce o non vuole ammetterlo, meglio è che si tenga lontano dal mondo e si sposti a vivere, se ne ha la forza o la possibilità, in un eremo o almeno in una comunità piccola e isolata.
* Articolo apparso su “Il Messaggero” del 10 dicembre 2014.
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