di Alessandro Campi
L’affermazione di Podemos in Spagna e di Andrzej Duda in Polonia porta a chiedersi quali cambiamenti si stanno realizzando in Europa sotto i nostri occhi. È stata la vittoria, secondo diversi osservatori, di due populismi: uno d’ispirazione democratico-radicale e uno di matrice cattolico-autoritaria, ma accomunati dalla capacità di sfruttare il disagio sociale dei cittadini e il risentimento di questi ultimi nei confronti delle rispettive classi politiche.
Ma il ricorso, per spiegare realtà nazionali e fenomeni politicamente tanto diversi, all’etichetta generica di “populismo” somiglia ad una forma di pigrizia intellettuale. Il populismo non è un programma o un’ideologia, ma uno stile retorico – basato sull’appello diretto al popolo – che può essere adattato ai più diversi orientamenti politici. Nell’Europa odierna, non a caso, sono molti i leader politici, conservatori o progressisti, che denunciano la “democrazia dei partiti” e si ergono a difensori del cittadino comune. Tutto sta a capire con quali contenuti questi leader riempiano i loro discorsi, in modo da renderli efficaci al momento del voto, e quali siano i segmenti sociali più sensibili ai loro proclami battaglieri. Solo così si può capire se c’è qualcosa che li unisce al di là del termine populismo.
Sul primo punto non c’è dubbio che il tema che maggiormente crea consenso in questa fase storica, in modo politicamente trasversale, sia quello anti-europeo: il nemico del popolo è, nella propaganda oggi egemone e premiante, l’Europa dei banchieri e delle burocrazie.
In Grecia la sinistra di Tsipras ha vinto denunciando le politiche di austerità della Merkel. I conservatori di Cameron hanno conquistato la maggioranza assoluta promettendo un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. In Italia Salvini è cresciuto nelle intenzioni di voto da quando si è intestato la lotta contro l’euro, ma già la crescita di Grillo era stata determinata dalla sua critica alla moneta unica e alle oligarchie di Bruxelles.
Si tratta di temi analoghi a quelli agitati dalla sinistra di Podemos e dai nazionalisti di Diritto e giustizia. Per Pablo Iglesias e Vicenç Navarro, i due ideologi del movimento spagnolo, occorre democratizzare le istituzioni dell’Unione e sottrarle al controllo delle tecnocrazie. Quanto al neo-presidente Duda, non ha mai fatto mistero di considerare un errore l’ingresso della Polonia nell’euro e la stessa Europa unita una minaccia agli interessi nazionali del suo Paese.
Ma si può fermare quest’onda limitandosi alla denuncia del “pericolo populista”? Non c’è forse bisogno, come ha sostenuto ieri Matteo Renzi, di una svolta radicale nel modo attuale di concepire l’integrazione europea?
L’altro punto che merita di essere sottolineato è quello relativo ai gruppi sociali che più facilmente si riconoscono nei nuovi partiti anti-sistema o in quelli più apertamente polemici nei confronti dell’Europa. Ciò che colpisce è che si tratta in prevalenza delle nuove generazioni. I giovani – tra attivisti e votanti – sono l’anima di movimenti come Syriza, Podemos o i 5 Stelle. In Polonia il 64% dell’elettorato giovanile ha votato Andrzej Duda. Giovani sono i seguaci di Salvini. L’impressione è che in Europa sia in corso da qualche tempo una forma di rivolta-protesta delle nuove generazioni che da un lato porta queste ultime al rifiuto di tutto ciò che appare politica in senso tradizionale, dall’altro le spinge a sostenere soprattutto i partiti che contestano il sistema o che esprimono posizioni radicali.
I giovani sono certamente i più colpiti dalla crisi economica che imperversa da anni: non vedono futuro e temono di restare dei precari a vita. Ma probabilmente non basta l’aspetto economico a spiegare le loro scelte politiche nel segno dell’intransigenza e del rifiuto di tutto ciò che ai loro occhi appare come vecchio o passato. C’è anche una dimensione culturale, psicologica e antropologica della quale forse bisognerebbe tenere conto.
Questi giovani vivono una realtà che un politico di cinquanta o sessanta anni fatica a interpretare e a tradurre in messaggio politico. Sono immersi nel flusso della comunicazione digitale e hanno il presente (oggi e adesso) come loro orizzonte temporale privilegiato. Vivono una condizione di precarietà che non è solo materiale, ma anche esistenziale, dal momento che non hanno più istituzioni o modelli di riferimento dai quali attingere regole di condotta ed esempi. Scontano relazioni affettive che a loro volta sono spesso all’insegna della fragilità (a partire da quelle esperite all’interno del nucleo familiare).
Sono altresì portatori di una cultura globale di massa, basata sulla mescolanza e la contaminazione, di consumo facile e immediato, che ha sempre meno punti di contatto e scambio con quella dei loro genitori. Scontano processi formativi e di apprendimento diversi da quelli delle passate generazioni (i global media hanno soppiantato la scuola). Obbediscono ad una scala di valori nel segno del relativismo e di un integrale soggettivismo (basti vedere a come hanno votato in massa i giovani irlandesi al referendum sui matrimoni omosessuali). Si tratta di generazioni che non sentono nemmeno lontanamente le vecchie appartenenze ideologiche, pur esprimendo spesso una grande voglia di protagonismo politico. Vivono in un mondo che a loro semplicemente non piace – giudicato corrotto, iniquo, violento – e che dunque vorrebbero cambiare alla radice: con uno slancio ideale spesso intriso da un ingenuo moralismo.
Questi sembrano essere in effetti gli stili di vita e pensiero di cui sono portatrici larghe porzioni del mondo giovanile europeo: quanto basta per capire perché fatichino a riconoscersi nei partiti tradizionali e preferiscano affidare la loro indignazione, la loro rabbia e il loro desiderio di cambiamento a leader generazionali come Tsipras, Salvini, Cameron o Iglesias. Stiamo parlando, a ben vedere, della cosiddetta “generazione Erasmus”, che per un curioso paradosso della storia sembra essere quella che meno crede nell’Europa politica costruita dai loro padri.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “il Mattino” del 26 maggio 2015.
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