di Renata Gravina
“Compro, ergo sono”. Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, interviene così sul Social Europe Journal l’11 agosto scorso a proposito delle rivolte in Inghilterra. “Sono azioni di consumatori esclusi dal mercato”, spiega. Sullo stesso solco, anche Anthony Giddens, il sociologo della third way blairiana, che sintetizza in un’intervista per La Repubblica gli eventi con questa espressione: “è la rivolta dei telefonini”.
Andando oltre la definizione di jacquerie consumista, originata per Giddens sullo sfondo della crisi economica e utilizzando come unico mezzo internet, si può rievocare la presenza di classi “pericolose” come una costante nella storia sociale inglese.
Dall’Ottocento in avanti gli effetti delle crisi di sicurezza e delle riforme applicate ai sistemi di welfare, hanno portato conseguenze sociopolitiche materializzatisi nelle forme della desocializzazione e del risentimento collettivo. I disturbers del pauperismo o le masse proletarizzate dell’industrializzazione hanno avuto gli stessi effetti degli attuali riots e sono stati governati sotto il duro polso della polizia.
Classi pericolose neanche tanto sommerse hanno contribuito alla parabola della politica moderna che va dal partito conservatore della Thatcher al nuovo conservatorismo ripensato da Cameron.
Durante gli anni dell’ultraliberismo thatcheriano che hanno caratterizzato l’Inghilterra per tre mandati consecutivi – dal 1979 al 1990 – l’applicazione “dall’alto” di un monetarismo forzato, gli alti tassi d’interesse e l’aumento dell’Iva hanno portato a sommosse istituzionali delle trade unions ed anche a movimenti e proteste extra istituzionali. Ancora, durante l’era di Blair e della politica di terza via portata in auge da un New Labour esportato da Giddens direttamente dagli Usa, nel 1997, politiche economiche ed insoddisfazione sociale si sono intrecciate.
Nonostante le “politiche amiche del business” e la fede in un governo “servitore della società e non viceversa”, non sono mancate polemiche e rivolte.
Quando poi è arrivato il figlio del nuovo conservatorismo, David Cameron, si è giunto al parossismo: fare della stessa società il fulcro del partito.
Nell’aprile del 2010 Cameron ha presentato grazie al contributo teorico di Philip Blond il manifesto della Big Society adottando molto della terza via blairiana: sostanzialmente il fatto che spendere nei servizi pubblici non fosse incompatibile con un’economia in crescita.
La sua Big Society è stata pensata come una “sussidiarietà ai localismi” in antitesi al welfare state.
Oggi, a dispetto di questi lodevoli intendimenti, le classi sociali “pericolose” e che protestano sono le stesse di un tempo, indipendentemente dunque dal loro schierarsi alle elezioni a destra o a sinistra. Sono classi stordite dall’autonomia di bottom- up e dal fallimento del multiculturalismo che ha allargato le differenze culturali invece che appianarle, così come confermato dallo stesso Cameron nel discorso del 5 febbraio scorso a Monaco; esse, a ben vedere, non fanno altro che svolgere la loro funzione storica, che non coincide necessariamente con una crisi autodistruttiva della civiltà capitalistica nei termini di una distruzione creatrice, come vorrebbe Schumpeter, ma sono figlie di una ferinità decivilizzata che si scatena nella percezione del fallimento del capitalismo e che ricorda assai più l’Isola dei cannibali di Werth, romanzo in cui richiamando la vicenda di Nazino dei gulag staliniani si apriva una riflessione sul riemergere degli arcaismi umani scardinatori
dell’utopia modernizzatrice.
Lì l’arcaismo riemergeva in contesto disumano, qui in un contesto antisociale.