di Alessandro Campi

1466973071_426094_1466986320_portada_normalL’errore da non fare, commentando le elezioni politiche spagnole, è di leggerne il risultato alla luce del referendum inglese. Ci si chiedeva, ad esempio, quanto quest’ultimo potesse condizionare il voto favorendo, sull’onda del successo ottenuto in Gran Bretagna, le forze cosiddette populiste, antisistema e d’ispirazione anti-europea. Ma era una domanda sbagliata alla radice, visto che nessuno dei partiti spagnoli in corsa, compresi i due movimenti più apertamente critici nei confronti dell’establishment politico tradizionale, vale a dire Podemos e Ciudadanos, per tale ragione classificati appunto come populisti, ha mai fatto campagna elettorale contro l’Unione europea. In Spagna non c’è nessuna forza che somigli, anche solo lontanamente, all’Ukip britannica, ai lepenisti francesi o alla Lega di Salvini.

Ciò significa che se il partito di Pablo Iglesias è cresciuto nei consensi, senza tuttavia conseguire – stando allo spoglio reale che ancora una volta ha smentito sondaggi ed exit poll – l’obiettivo storico di superare i socialisti, ciò non è dipeso dal fatto che abbia alimentato il fuoco dello scontento contro Bruxelles, ma da altri fattori. Su tutti l’accordo elettorale sottoscritto con i comunisti di Isquierda Unida, che ha consentito a Podemos di inglobare una quota, in realtà non troppo significativa, di voti provenienti dalla sinistra più estrema e di passare dal 20,6 al 21,1% dei voti (con un guadagno di un paio di seggi – da a 69 a 71 – rispetto alle precedenti consultazioni: davvero poco tenuto contro delle previsioni della vigilia che parlavano di una grande avanzata).

Si era anche pensato che il referendum britannico potesse avere un effetto mobilitante sugli elettori, spingendo a votare molti degli spagnoli che nel dicembre 2015 erano rimasti a casa. Ma nemmeno quest’effetto c’è stato: i risultati hanno anzi fatto registrare, rispetto alle ultime elezioni, un leggero aumento degli astensionisti (alla fine ha votato il 69,8% degli spagnoli contro il 73,2 della volta precedente). Evidentemente la sensazione di un voto che rischiava di essere nuovamente inutile è stata più forte di qualunque paura per ciò che potrebbe succedere nelle economie europee.

L’unica – ma a ben vedere minima – influenza dello shock prodotto dal referendum di giovedì scorso si è determinata a beneficio del Partito popolare di Mariano Rajoy, che negli ultimi giorni, sperando di convertire la sua mancanza di carisma in una virtù, aveva molto insistito sul tema della stabilità, sulla sua personale affidabilità di politico navigato e sulla necessità di non correre rischi politici in un momento tanto delicato. Per tale ragione aveva anche invitato gli elettori moderati e centristi a non disperdere il loro voto in direzione di Alberto Rivera e del suo movimento Ciudadonos.

Quest’ultimo in effetti è uscito ridimensionato dalle urne (dal 13,9 al 13%, con una riduzione della rappresentanza parlamentare, da 40 a 32 deputati, ottenuta nel 2015), pagando quindi il richiamo al “voto utile”, ma la crescita dei Popolari, per quanto significativa, non ha avuto alcunché di travolgente. Sono ancora il primo partito di Spagna, ma sono ben lontani dall’aver ottenuto i seggi necessari (176) a governare da soli. Ne avevano avuti 123 nelle precedenti consultazioni: ne hanno ottenuti in questa tornata una quindicina in più (137).

Il problema della Spagna è che veniva da una condizione di ingovernabilità e si trova, dopo il voto di ieri, in una condizione praticamente analoga. Dall’attribuzione finale e definitiva dei saggi, oltre al dato certo che nessun singolo partito potrà governare da solo, si possono escludere sia la possibilità di una coalizione centrista-moderata (Pp e Ciudadanos arriverebbero a 169 seggi) sia soprattutto quella di una coalizione di sinistra (Psoe e Podemos avrebbero insieme 156 parlamentari).

Sulla carta, per dare un esecutivo stabile alla Spagna, non sembra restare che una soluzione politica (esclusa dunque la possibilità di un esecutivo tecnico): quella di una grande coalizione tra Pp e Psoe, resa tuttavia difficile dal contrasto personale, un misto di antipatia e disistima reciproche, esistente tra Mariano Rajoy e il leader socialista Pedro Sánchez. Dopo le elezioni del dicembre 2015 si era già parlato di una simile eventualità, ma i due avevano rifiutato di incontrarsi anche una sola volta. Una grande coalizione probabilmente richiede che uno dei leader faccia un passo indietro. E visto come sono andati i socialisti (hanno perso cinque dei 90 parlamentari che avevano) un tale passo dovrebbe farlo a questo punto Sánchez: che ha sì evitato la beffa del sorpasso da parte di Podemos, ma che non pare assolutamente in grado di frenare l’emorragia inarrestabile che da anni ha colpito il suo partito.

Ma bisogna tenere presente anche un altro aspetto che rende di difficile praticabilità la formula della grande coalizione: in Spagna esiste una tradizione di alternanza netta al governo che rende quasi inaccettabile, diversamente da quel che abitualmente accade ad esempio in Germania, l’idea di un compromesso o patto tra forze politiche diverse per programmi e ideali. L’impressione è che questo tratto tipico della cultura politica spagnola, molto incline alla polarizzazione e allo scontro ideologico, debba stavolta piegarsi, per realismo e buon senso, alla necessità di trarre il Paese dal pantano nel quale rischia di precipitare in virtù dello spezzettamento ormai cronico del suo sistema politico.

E sono proprio questi – l’instabilità di governo e la frammentazione partitica – i due aspetti che più legano la vicenda spagnola (resa certo particolare anche dall’esistenza di un sistema elettorale di stampo rigorosamente proporzionale) a quanto sta accadendo in altri sistemi politici. Con l’emergere dei partiti cosiddetti (spesso impropriamente) populisti la stagione classica del bipolarismo sembra essere finita un po’ ovunque in Europa: dalla Spagna, appunto, alla Gran Bretagna, dall’Italia alla Francia, dall’Austria alla Germania. Nuovi attori politici, caratterizzati da una forte impronta antisistema e dal fatto di presentarsi come fautori di un rinnovamento radicale delle regole del gioco politico, si sono insediati ormai stabilmente nei diversi contesti nazionali, sino a minacciare la forza egemonica e la capacità di governo dei partiti tradizionali, in particolare di quelli che si richiamano alle tradizioni cristiano-popolare e socialista. Partiti che sempre più spesso si trovano costretti ad allearsi elettoralmente o a formare governi di grande coalizione proprio con l’obiettivo di sbarrare la strada a questi nuovi movimenti di alternativa e di garantire ai rispettivi Paesi un minimo di governabilità. Da questo punto di vista il voto di ieri, per quanto fortemente motivato da ragioni e dinamiche interne, non è stato un voto solo spagnolo, ma l’espressione di una “grande trasformazione” che sembra aver investito, con esiti al momento difficili da determinare, la maggior parte delle democrazie europee.

* Editoriale apparso, con qualche variante, sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino”del 27 giugno 2016.

 

 

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