di Spartaco Pupo

Se in Francia il centenario della nascita di Albert Camus (7 novembre 1913-4 gennaio 1960) non ha fatto altro che riaccendere contese ideologiche mai sopite, in Italia si è persa l’occasione per una rilettura serena e scevra dalle solite forzature interpretative, come quella di MicroMega, che al pensatore franco-algerino dedica il suo ultimo numero, dal titolo “L’intellettuale e l’impegno”. L’“essere impegnato”, che secondo MicroMega avrebbe costituito il “filo rosso della vita e dell’opera di Camus”, più che come un riconoscimento alla sua statura culturale, appare come un tentativo di riesumazione della vecchia figura dell’intellettuale “necessario”, come viene peraltro chiamato, che – cito testualmente – mette “il proprio prestigio e la propria visibilità al servizio della causa della democrazia radicale”.

Non poteva esserci rievocazione di Camus più strumentale e fuorviante di questa, per il semplice fatto che, se c’è un mito che egli ha contribuito a seppellire, è proprio quello dell’intellectuel engagé, maltrattato e deriso alla stregua di tutti i paradigmi ideologici che contrappongono l’universale alla contingenza, la predizione storicistica alla cruda realtà del presente. La produzione intellettuale di Camus tutto è stato fuorché un “servizio” a questa o a quella causa politica “radicale”, a meno che per “impegno” e “servizio” non si intenda la costruzione da parte del giovane Camus insieme ad altri intellettuali di orientamento libertario, nel 1935, di quella “Casa della cultura” come reazione alla cocente delusione verso il partito comunista che aveva dato il suo incondizionato sostegno alla repressione poliziesca del movimento indipendentista Etoile Nord Africaine Algerie. Il prestigio e la visibilità di Camus di certo non furono mai messe al servizio del centralismo politico o dello storicismo marxista, ai quali egli ha sempre anteposto la dignità dell’uomo e la realtà della natura, tanto che la sua “rivolta”, di cui andava fiero, non si fondava sul divenire della storia bensì, come lui stesso tenne a precisare, “sulla realtà, per incamminarsi in un combattimento permanente verso la verità”.

Un solo mito Camus ha forse alimentato con grande fervore intellettuale, ed è quello del Mediterraneo, del mare e del sole, di cui l’Italia è sintesi perfetta. Camus amava l’Italia più della Francia, fino al punto di scrivere che gli sarebbe piaciuto morire “sulla strada che sale verso Siena”. E italiani furono, non a caso, i suoi migliori amici, tra cui Ignazio Silone, a favore del quale intervenne nel 1950 contro Palmiro Togliatti, in nome di quell’antistalinismo che l’anno dopo costerà a Camus la campagna diffamatoria orchestrata contro di lui da Jean-Paul Sartre su “Le temps modernes”. Suoi amici erano anche Nicola Chiaromonte, che nel 1956 lo chiamò a collaborare a “Tempo Presente”, e intellettuali cattolici come Armando Rigobello, che alla sua memoria dedicherà il suo bel libro Camus tra la miseria e il sole (1963). E se Carlo Bo, che lo aveva conosciuto bene, pensò di accostarlo nientemeno che a Pierre Drieu La Rochelle, Dino Buzzati, cogliendone il vero volto, in “Cronache terrestri” raccontò di averlo incontrato e di essersi imbattuto in una figura esattamente opposta a quella dell’intellettuale impegnato: “Non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista”. Un ritratto che trova conferma nelle parole della figlia di Camus, Catherine, che così lo ricordava qualche tempo fa: “Al suo tempo la maggior parte degli intellettuali francesi erano dei borghesi che avevano frequentato le migliori scuole. Lui era diverso e per di più veniva dall’Algeria, in un’epoca in cui la Francia guardava soprattutto al Nord, rimuovendo la sua dimensione mediterranea”.

L’uomo in rivolta, del 1951, il libro forse più importante di Camus, lungi dal mitizzare la figura dell’intellettuale “necessario” o organico, è la completa liberazione da qualsivoglia rigida costruzione concettuale e sistematica, filosofica o ideologica che sia. È un inno al realismo, al “coraggio dinanzi alla realtà”, al rispetto della “finitudine umana” contro la ragione arrogante, contro le riduzioni ad unità della varietà della natura, di cui Camus denunzia lucidamente debolezze e perversioni. “Il realismo – scrive – è enumerazione indefinita. Con ciò rivela che la sua ambizione è la conquista non dell’unità, ma della totalità del mondo reale”.

Che il realismo sia il vero “filo rosso” dell’opera di Camus è testimoniato anche dal testo de Il mito di Sisifo, del 1942, in cui afferma chiaramente che “cercare ciò che è vero” non significa “cercare ciò che è desiderabile”. Un realismo estremo, il suo, che lo portò più di una volta a rifiutare la qualifica di “filosofo”, come fece quando a un giornalista che gli chiedeva se lui fosse un discepolo di Sartre rispose lapidariamente: “Io non sono un filosofo!”.

Dalla devozione all’unica “luce” che considerava tale, ossia la “luce mediterranea”, derivava l’attrazione di Camus per l’Italia, e non certo a caso. La storia politica italiana, per molti aspetti, ha inseguito il mito del mare nostrum: dall’espansione imperiale di Roma all’affermazione delle repubbliche marinare, dall’avventura abissina mussoliniana al filoarabismo craxiano, passando per quell’unità nazionale che, mandando all’aria i progetti cavouriani di una dinastia esclusivamente settentrionale, fece della nazione italica una vera e propria potenza mediterranea, crocevia naturale tra l’Europa e l’Africa, tra la penisola iberica e i Balcani.

Ma più che alla storia del Mediterraneo, che Camus conosceva bene senza tuttavia sentirsi mai né colono né imperialista, né algerino né francese, egli era interessato al “pensiero mediterraneo”, in cui scorgeva non solo un potente “contrappeso” al nichilismo nordico, ma anche una forza capace di rianimare “la lunga tradizione di quello che si può chiamare pensiero solare, nel quale, dai Greci in poi, la natura è sempre stata equilibrata al divenire”. Il conflitto del ’900 si stabiliva, per Camus, “non tanto fra le ideologie storicistiche tedesche e la politica cristiana, che sono in un certo senso complici, quanto fra i sogni tedeschi e la tradizione mediterranea, le violenze dell’eterna adolescenza e la forza virile, la nostalgia e il coraggio”.

La polemica di Camus è tutta indirizzata contro “l’assolutismo storicista” che, nonostante i suoi trionfi sul piano dell’esperienza politica, “non ha mai cessato di cozzare contro un’esigenza invincibile della natura umana di cui il Mediterraneo, dove l’intelligenza è sorella alla luce cruda, serba il segreto”. E la sua originalità sta nell’aver visto in largo anticipo, al contrario di molti intellettuali contemporanei, più o meno necessari ed organici, che è nel pensiero mediterraneo che si instaura l’equilibrio della realtà naturale contrapposto alla divinizzazione ideologica della storia, e che è nella tradizione mediterranea che si possono trovare le soluzioni ai problemi del “rimescolamento” antropologico e geopolitico di culture e popoli diversi, bagnati dalle stesse acque.

 

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