di Antonio Capitano

Quarant’anni fa nasceva l’idea di una fondamentale opera di Paolo Sylos Labini. Si tratta di quel Saggio sulle classi sociali davvero importante per la formazione di diverse generazioni che ne hanno apprezzato la chiarezza e la schiettezza dell’autore. E con queste doti egli affermava: “Chi scrive si considera, politicamente, un onesto riformista – onesto nel senso che non solo crede ma, con le sue modestissime forze, opera per le riforme, specialmente per quelle riforme che possano contribuire a ‘sgombrare il terreno da tutti quegli impedimenti legalmente controllabili che impacciano lo sviluppo della classe operaia’ […]. Pur considerandosi un riformista, chi scrive non ha ostilità. Ha anzi rispetto, per coloro che vogliono operare da rivoluzionari, a condizione che si tratti di rivoluzionari seri e non di miserevoli parolai o di luridi imbroglioni. E sebbene egli auspichi le riforme non per consolidare il sistema ma per cambiarlo, chi scrive deve ammettere che gli fa difetto la fede rivoluzionaria – la fede nella necessità o nell’utilità di un grande trauma nel processo di trasformazione sociale”.

A sette anni dalla morte del grande economista, le sue parole hanno ancora la stessa forza e la stessa determinazione. E in questo settennato senza di lui tutti, più o meno, si sono definiti riformisti senza esserlo. Si è scelto di delegare le riforme all’improvvisazione piuttosto che alla necessaria programmazione. Come ben ricorda Luigi Spaventa, “Sylos Labini praticò incessantemente un riformismo di marca fabiana: quello che, se piove, cerca di trovare un ombrello invece di rinviare, bagnandosi, ai ‘ben altri’ problemi che sono “a monte”. Rifiutò prebende e incarichi – semmai era incline a sbattere porte – ma passò tanto tempo a cercare problemi specifici a cui proporre specifiche soluzioni, di cui sollecitava l’accoglimento con ansia quasi missionaria”.

In questo senso, la sua figura, sebbene diversa per carattere, è del tutto conforme a quella di Federico Caffè che, nella propria “solitudine”, percorreva il sistema italiano a testa alta. E, inascoltato, parlava del “ruolo” del riformista così: “Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del ‘sistema’. II riformista è anche consapevole che alla derisione di chi lo considera un impenitente tappabuchi (o, per cambiare immagine, uno che pesta l’acqua del mortaio), si aggiunge lo scherno di chi pensa che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai, in quanto a tutto provvede l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci: anche di preteso intento riformistico. Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose”.

Come sarebbe stata l’Italia se i due grandi economisti avessero avuto maggiore ascolto? Come sarebbero cambiati i partiti che ancora non riescono a riformarsi? In vista delle prossime elezioni politiche è ancora possibile sperare nell’insegnamento della recente disfatta italiana? La risposta ci viene ancora fornita dallo stesso Sylos Labini con parole di opportuna attualità: “La stessa idea, relativamente moderata, del ‘compromesso storico’ che doveva unire le masse proletarie e quelle cattoliche aveva contribuito all’accantonamento del riformismo laico, così importante nello sviluppo civile di altri paesi, come l’Inghilterra, la Germania, la Francia. Il riformista cioè veniva visto come un incomodo, un fastidioso grillo parlante che richiamava ai problemi concreti e al pragmatismo. Le cose andavano cambiate da cima a fondo, radicalmente, e il riformista era invece uno che si accontentava di migliorarle un po’. Se ad esempio si diceva che occorreva riformare la pubblica amministrazione per renderla più efficiente, subito qualcuno interveniva a osservare che il problema era ben altro, che lo stato borghese andava abbattuto, non riformato. In sostanza, i filoni riformisti di cui ci occupiamo sono accomunati dall’obiettivo di cambiare la società attraverso modifiche graduali per ridurre le disuguaglianze e ampliare le libertà. La contrapposizione tra riformisti e rivoluzionari riguarda non solo e non tanto il realismo dei rispettivi progetti politici, quanto l’attenzione che i riformisti dedicano ai costi del cambiamento, e ai modi di realizzarlo, rispetto ai fini: i mezzi adottati, in effetti, influenzano la stessa qualità dei fini che si vogliono raggiungere”.

All’indomani delle primarie del partito democratico sarebbe interessante scoprire se c’è un nuovo partito democratico che dica qualcosa di riformista. E’ questa la grande occasione per riformare il Paese dall’interno affidandosi ad un “concretismo salvemiano” per dimenticare al più presto gli anni di disgrazia e ricordare invece chi voleva e poteva cambiare questa Italia, oggi ancora a “civiltà limitata”.