di Alessandro Campi
Nel clima di grave incertezza che l’Italia sta vivendo, relativa in particolare alla capacità della politica di gestire l’emergenza in corso e le dure conseguenze che ne seguiranno, la buona notizia dell’altro ieri è che le ragioni dello Stato sono prevalse su quelle – peraltro tra loro contraddittorie e inconciliabili – delle singole Regioni.
A decidere su come e quando ripartire, dopo il lungo blocco imposto al Paese dalla pandemia in corso,
di Alessandro Campi

Nel clima di grave incertezza che l’Italia sta vivendo, relativa in particolare alla capacità della politica di gestire l’emergenza in corso e le dure conseguenze che ne seguiranno, la buona notizia dell’altro ieri è che le ragioni dello Stato sono prevalse su quelle – peraltro tra loro contraddittorie e inconciliabili – delle singole Regioni.

A decidere su come e quando ripartire, dopo il lungo blocco imposto al Paese dalla pandemia in corso, sarà dunque e per fortuna il Governo (supportato dal parere, ancora una volta rivelatosi vincolante, degli esperti), non i singoli Governatori. Messa in questi termini sembrerebbe un modo di ragionare (e d’esultare) nel segno d’una vecchia mentalità centralista o statalista. Non è ovviamente così. Si è semplicemente evitata, sul filo del pragmatismo, la deriva anarchica che s’annunciava e che non poca confusione avrebbe creato (senza contare i rischi per la salute). Si è altresì stabilito l’elementare criterio secondo il quale ogni decisione politica, in una situazione d’emergenza come l’attuale, non può che essere presa in modo unitario e coordinato.

Le profonde differenze tra territori in ordine al diverso livello di diffusione del contagio vanno tenute nel massimo conto, ai fini di una ripresa (in primis delle attività economiche) che dovrà essere necessariamente graduale nelle modalità e temporalmente differenziata, ma il “fai da te” istituzionale – tra annunci di apertura totale al Nord e annunci di chiusure altrettanto totali dei confini al Sud – andava assolutamente evitato.

Ciò detto, la questione emersa evidente in queste settimane e con la quale nel prossimo futuro dovremo fare i conti riguarda la qualità e funzionalità dell’attuale assetto politico-territoriale dell’Italia, a partire appunto dalle Regioni.

Prima che il virus stravolgesse ogni priorità, il dibattito pubblico italiano verteva, in materia di modifiche costituzionali, sul cosiddetto “regionalismo differenziato” o “asimmetrico”, per il quale sia il Governo Gentiloni sia il primo Governo Conte hanno anche firmato delle bozze d’accordo, ovvero delle intese preliminari, con le tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) che se ne sono fatte promotrici con l’obiettivo di ottenere dallo Stato competenze sempre maggiori in materie delicate quali l’istruzione, la fiscalità, il commercio con l’estero, la tutela della salute, la politica industriale, ecc.

Sebbene contestata da molti osservatori come potenzialmente lesiva dell’unità e solidarietà nazionale, una simile riforma era stata presentata, dal punto di vista politico, il punto d’approdo inevitabile, a cinquant’anni dell’istituzione degli enti regionali, di un lungo percorso teso appunto a valorizzare in modo compiuto e organico l’autonomismo territoriale e il pluralismo istituzionale, secondo il dettato costituzionale. Ma lo scoppio della pandemia – proprio per il fatto d’aver drammaticamente colpito le aree del Nord, mettendo altresì a nudo il ruolo dirimente dello Stato quando si tratta di garantire protezione e sicurezza ai cittadini (sul piano sanitario come su quello economico) – ha drasticamente cambiato lo scenario politico-sociale e dato corpo a preoccupazioni che erano rimaste sin qui latenti o poco ascoltate. Ad esempio quelle relative all’effettiva funzionalità dell’assetto pseudo-federalista, basato sull’ennesima redistribuzione delle competenze e della potestà legislative tra Stato e Regioni, lungo il quale l’Italia si era incamminata in modo quasi inerziale sotto la pressione dei suoi territori più ricchi e sviluppati.

Si tratta di chiedersi, in altre parole, se una certa visione o cultura del regionalismo non abbia fatto il suo tempo, visto gli effetti distorti che esso ha prodotto e che nulla hanno a che fare con l’idea di autonomismo (l’unità nel pluralismo dei territori) sostenuta dai nostri Costituenti. Lo abbiamo visto in queste settimane: le Regioni (e le rispettive classi dirigenti regionali, aiutate in questo dall’indebolimento dei partiti a vocazione nazionale) tendono ormai a considerarsi sempre più antagoniste dello Stato, potenzialmente alla stregua di soggetti sovrani, piuttosto che sue articolazioni istituzionali.

Si tratta altresì di chiedersi se abbia altresì un senso storico e culturale quest’ossessione identitaria di stampo regionalista (sostenuta ideologicamente soprattutto dalla Lega, tornata ad essere in questi frangenti un partito sostanzialmente secessionista e anti-romano a dispetti degli sforzi di Salvini per farne una forza nazionale) considerato che i loro attuali confini sono, nella gran parte dei casi, null’altro che la traduzione politico-amministrativa dei compartimenti statistici e delle suddivisioni territoriali stabilite all’epoca dei primi censimenti post-unitari.

Significa infine chiedersi se, in una logica autenticamente modernizzatrice della macchina pubblico-statale italiana, non si debba pensare nel prossimo futuro ad una ridefinizione/semplificazione delle attuali dimensioni territoriali delle Regioni. Non per una questione di contenimento dei costi della politica, secondo la miope e demagogica prospettiva che ha portato alla soppressione delle Province, ma per ragioni di riequilibrio economico, di razionalizzazione gestionale, di efficacia (ed equità) delle politiche pubbliche e di maggior competitività dei territori (e dunque del Paese nel suo complesso) nel contesto soprattutto europeo.

Quello dal prendere sul serio non è dunque il regionalismo che, nella traduzione che s’era finito per darne rispetto alla sua concezione originaria, sempre più ha inclinato verso il separatismo di stampo secessionista, ovvero verso un malinteso senso dell’autarchia, quanto la prospettiva del riordino dello Stato italiano su base macro-regionale. Prospettiva di cui pure s’è parlato per anni, che ha anche trovato qualche timida traduzione negli accordi di collaborazione sottoscritti nel recente passato tra alcuni Regioni, ma che non è mai stata considerata una soluzione politico-istituzionale sulla quale impegnarsi in modo organico e convinto.

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