di Alessandro Campi

Si parla con insistenza della possibilità che le prossime elezioni finiscano, in virtù della legge elettorale vigente, con un tendenziale “pareggio” al Senato. Il che significa che l’eventuale vincente si troverebbe a disporre di una maggioranza assai risicata in quel ramo del Parlamento. Ma ciò significa altresì che per tenere in vita il futuro governo, a meno di accordi politici post-elettorali che ne allarghino la base parlamentare, potrebbero rivelarsi decisivi i voti, da un lato, dei senatori a vita (sono rimasti in quattro, e tra questi vi è Monti, ma con Napolitano dovrebbero diventare cinque) e dall’altro dei senatori eletti all’estero (sei secondo l’attuale normativa).

Rischia insomma di riprodursi anche nella prossima legislatura il copione del secondo governo Prodi, quando furibonde polemiche si scatenarono per il sostegno offerto alla maggioranza, in occasione dei voti di fiducia, dai senatori a vita, e quando assurse agli onori delle cronache tale Pallaro Luigi, un imprenditore italo-argentino che grazie al suo voto decisivo al Senato per alcuni mesi divenne il dominus degli equilibri politico-parlamentari italiani.

L’idea che anche le sorti del prossimo esecutivo possano essere decise, più che dai senatori a vita, probabilmente intenzionati a tenersi lontani dalle polemiche dopo le passate esperienze (con l’inevitabile eccezione di Monti che ha scelto invece la politica attiva), da uno o più senatori eletti all’estero, porta fatalmente a interrogarsi sulla validità delle legge – la n. 459 del 27 dicembre 2001 – con la quale, dopo la modifica l’anno precedente dell’art. 48 della nostra Carta fondamentale, è stato riconosciuto e regolamentato l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero.

Una legge salutata all’epoca non solo come il riconoscimento, peraltro tardivo, di un diritto costituzionalmente tutelato, quale la possibilità di partecipare al voto per tutti i cittadini, ma soprattutto come un risarcimento doveroso, da parte dello Stato italiano, nei confronti dei milioni di italiani emigrati in giro per il mondo nel corso dei decenni e dei quali la madrepatria s’era come dimenticata. Una battaglia, quello per il voto degli italiani all’estero, combattuta con grande generosità soprattutto dall’indomito Mirko Tremaglia, che ne aveva fatto una ragione di vita. Il che non toglie che sin dalla sua prima applicazione, ai referendum del giugno 2003 ma soprattutto in occasione delle elezioni politiche del 2006, essa abbia suscitato, accanto a grandi entusiasmi, non poche e crescenti perplessità. Quelle stesse che oggi sembrano consigliare – più che l’abolizione tout court della medesima, polemicamente suggerita da alcuni osservatori – una sua significativa revisione, che ne corregga le evidenti storture.

Lasciamo perdere i brogli che sono stati commessi e ampiamente documentati, in diversi casi, nelle elezioni dei nostri rappresentanti all’estero (schede vendute al miglior offerente o artefatte). Sorvoliamo sul fatto che a orientare (e talvolta a manipolare) il voto dei nostri connazionali siano piccoli gruppi organizzati la cui natura è più affaristica che propriamente politica. E sorvoliamo altresì sul profilo di alcuni degli eletti o dei candidati (visto che tanto ci preoccupiamo della presentabilità dei politici di casa nostra, faremmo bene a preoccuparci anche della presentabilità di quelli d’oltreconfine).

Sono altri gli aspetti che non convincono di questa legge. Ad esempio, quale forma di rappresentanza può essere garantita agli italiani residenti all’estero da senatori e deputati eletti in collegi o circoscrizioni che corrispondono nemmeno a nazioni o stati ma a interi continenti? Quanto alle modalità di voto, per evitare sospetti di brogli andrebbe forse messo a punto un meccanismo più trasparente dell’attuale: il voto per corrispondenza, infatti, non offre la garanzia che le buste spedite e contenenti le schede giungano per davvero agli aventi diritto, così come il voto espresso con queste modalità non è certo che venga indirizzato direttamente dai votanti alle diverse sedi consolari. Forse bisognerebbe istituire presso queste ultime dei veri e propri seggi, dove possano personalmente recarsi coloro che hanno effettivamente intenzione di esprimere il loro voto. Senza considerare, come ulteriore argomento, che non sta scritto da nessuna parte che partecipare al voto per un cittadino che risieda all’estero significhi eleggersi rappresentanti anch’essi residenti all’estero: non sarebbe più semplice e politicamente più corretto, anche per i nostri connazionali all’estero, scegliere tra i candidati per cui votano tutti gli altri italiani?

C’è poi il problema, più volte sollevato, che nell’anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero risultano iscritte persone che in Italia non hanno mai nemmeno messo piedi, se non per qualche breve periodo di vacanza, che non ne parlano la lingua, essendo i discendenti di seconda o terza generazioni dei nostri emigranti, e che dunque poco ne conoscono la storia e le condizioni attuali. Ha senso – in omaggio ad una concezione della cittadinanza eccessivamente generosa ed elastica, che attualmente consente l’iscrizione nelle liste elettorali anche di cittadini italiani nati e residenti all’estero, i cui ascendenti non siano nati, né siano mai stati residenti, in Italia – che abbiano diritto di voto (e dunque possibilità di influire sulla politica italiana) persone che con l’Italia hanno un rapporto al massimo sentimentale o affettivo, dal momento che i loro interessi professionali e materiali si svolgono interamente in altre parti del mondo?

Forse bisognerebbe distinguere tra italiani temporaneamente residenti all’estero (o che magari intrattengono con l’Italia un qualche rapporto stabile e continuativo) e italiani tali solo formalmente, ma che vivono in modo stabile o permanente fuori dai confini nazionali. Non suona come una stranezza il fatto che abbiamo appena negato il diritto di votare a migliaia di giovani italiani impegnati all’estero nei programmi Erasmus o fuori dall’Italia per un master o per un periodo di lavoro, mentre lo riconosciamo ad un australiano o argentino per il solo fatto di possedere, per linea di sangue, un regolare passaporto italiano?

L’obiezione, quando si fanno simili discorsi, è che si rischia di indebolire i legami con le vaste comunità italiane residenti all’estero, che per l’economia e l’immagine del nostro Paese rappresentano una grande ricchezza. Ma ancora nessuno ha spiegato cosa c’entrino la promozione degli interessi italiani nel mondo e la difesa di quel vasto patrimonio di cultura e identità rappresentato dalle comunità d’origine italiana – per i quali si può contare su una vasta e articolata rete di strutture e istituzioni, a partire da quelle diplomatiche – con la rappresentanza politica e il diritto di voto, che in democrazia sono sempre stati storicamente legati a due elementi: la partecipazione attiva alla vita pubblica e la tassazione intesa come oggetto del contratto o patto che lega il cittadino allo Stato nel quale vive e alle cui leggi obbedisce.

Quando, nel febbraio del 2010, scoppiò in modo fragoroso il caso del senatore del Pdl Nicola di Girolamo – eletto all’estero nella circoscrizione Europa e costretto a dimettersi dal mandato parlamentare in seguito a gravi accuse e a ripetuti mandati d’arresto – diversi esponenti politici, di destra e sinistra, espressero la volontà di mettere mano ad una significativa revisione della legge sul voto degli italiani all’estero. Forse sarebbe il caso di ricordarsi di questo impegno nella prossima legislatura, sempre che a risultare decisivo al Senato non sia qualcuno eletto nel collegio Africa-Asia-Oceania-Antardide.

* Articolo apparso sul “Messaggero” di Roma del 6 febbraio 2012 con il titolo Italiani all’estero, voto  da cambiare.

 

 

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