di Alessandro Campi
Che bello (e civile) un Paese dove i leader politici sconfitti si dimettono un minuto dopo la proclamazione dei risultati ufficiali, invece di prendersela con gli elettori o con il destino. Ma non è questo il punto che merita di essere sottolineato a commento delle elezioni che hanno visto trionfare i conservatori di David Cameron.
Colpisce, in prima battuta, l’inattendibilità degli analisti, la loro incapacità ad elaborare scenari realistici o a cogliere l’ orientamento dell’opinione pubblica. Si parlava di un sistema politico, quello inglese, sempre più frammentato e ingovernabile, si paventava la crescita del voto populista e antieuropeo, si dava per probabile un testa a testa tra i due maggiori partiti se non la vittoria dei laburisti di Ed Miliband.
Nulla di tutto questo è accaduto. I Tories hanno da soli la maggioranza in parlamento. L’Ukip di Nigel Farage (l’alleato europeo di Grillo) è letteralmente sparito dalla scena. I liberal-democratici sono diventati di colpo ininfluenti. E quanto ai laburisti, hanno rimediato una sconfitta storica anche a causa dell’exploit – nemmeno questo previsto nelle proporzioni che ha effettivamente avuto – dei nazionalisti scozzesi.
Ma il dato veramente interessante di questo voto, dal punto di vista dell’Italia, è un altro: l’esistenza in Gran Bretagna di una destra forte e vincente, ben radicata nella società e nella storia del Paese, riformista e innovativa sul piano delle idee, dotata di una guida giovane e brillante, a fronte di una destra – quella appunto nostrana – divisa, confusa, disorganizzata, dalla mentalità perdente e priva di una strategia, con molti capi in competizione tra di loro, capace solo di inveire contro l’avversario o di raccattare i cattivi umori dell’elettorato. Quella italiana ritiene di avere qualcosa da imparare dalla destra inglese, visto l’entusiasmo con cui molti suoi esponenti hanno salutato la vittoria di Cameron?
Si dice che nei momenti di incertezza sociale l’elettorato tenda ad enfatizzare il valore della stabilità e della sicurezza. E dunque a preferire la destra cosiddetta moderata, d’ordine o conservatrice. Questo potrebbe spiegare, oltre la conferma di Cameron a Downing Street, la lunga parabola della Merkel in Germania, il vittorioso ritorno sulla scena di Sarkozy e dei gollisti o il fatto che in Spagna, pur tra qualche difficoltà, governino i popolari di Rajoy.
Rispetto a questo quadro, che riguarda i quattro principali Paesi d’Europa, l’Italia rappresenta un’eccezione. A voler essere maligni si potrebbe argomentare che qui da noi è Renzi ad aver occupato lo spazio politico-simbolico che altrove è proprio della destra pragmatica, liberale e riformista. Ma le polemiche col sindacato, con la burocrazia di Stato e con le corporazioni sociali non bastano a fare di Renzi, come sostengono i suoi nemici interni, un avatara del berlusconismo. Il suo è un aggiornamento del socialismo liberale, con un tratto modernizzante, individualista, carismatico e anti-pauperista che appare inedito e bizzarro solo perché i suoi predecessori-antagonsiti venivano in maggioranza dalla tradizione del comunismo collettivista, autoritario e vagamente illiberale.
La debolezza della destra italiana in realtà non dipende da Renzi che ne ha invaso il campo, ma dalle cattive prove che ha dato la sua leadership nel corso degli ultimi anni: incapace di rinnovarsi e di mettersi in discussione, divenuta sorda alle istanze della sua base sociale (che infatti s’è rifugiata in massa nell’astensionismo), non più in grado di avanzare al Paese una proposta originale e innovativa.
Si parla adesso, anche a causa del nuovo meccanismo elettorale appena votato dal Parlamento, della necessità di riunificare questo mondo sotto la sigla di un partito “repubblicano” che possa essere realmente alternativo a quello “democratico”. Ma l’unità del centrodestra o dei moderati è stata già tentata una volta, con il progetto del Pdl, ed è miseramente fallita. Che sia nuovamente Berlusconi a suggerire questa prospettiva la rende già poco praticabile, dal momento che oggi – diversamente da ieri – nessuno lo riconosce più come il leader unico e naturale di quest’area politica.
Ma il problema non è nemmeno di uomini, con le loro legittime ambizioni di potere, ma di idee e di programmi. Perché ha vinto Cameron? Salvini, che della destra italiana è indubbiamente l’astro nascente, persino l’ideologo, è convinto che sia dipeso dalle sue posizioni intransigenti in materia di immigrazione e di Europa. Basta dunque alzare la voce, anche in Italia, contro i clandestini e l’euro e il gioco è fatto. Lo pensa il capo della Lega, ma forse lo pensano molti altri esponenti della galassia del centrodestra.
Sfugge, a questa sommaria analisi, che Cameron ha invece vinto grazie alle sue ricette economiche: rigore nei conti pubblici, riduzione effettiva delle tasse, misure per attrarre investimenti. Grazie al suo modello sociale basato sull’idea della “big society”: il bene pubblico come frutto della responsabile azione degli individui. Ha vinto grazie al fatto che il conservatorismo che egli interpreta sa coniugare la difesa della libertà economica e dell’impresa con la compassione per i socialmente disagiati, l’orgoglio della tradizione (al limite del nazionalismo) con coraggiose aperture sul versante dei diritti civili. Ha vinto insomma non perché ha alimentato la fobia contro gli stranieri (il che ovviamente non gli ha impedito di mostrarsi rigoroso nella gestione dei flussi immigratori), ma perché ha interpretato l’orgoglio, persino patriottico, di vivere in un Paese multirazziale e tollerante, che proprio a queste sue caratteristiche deve il dinamismo che lo contraddistingue da anni.
Dove c’è una destra come quella di Cameron, il populismo non mette salde radici e non diventa mai una seria alternativa di governo (lo stesso vale per la Francia, a dispetto di tutti gli allarmi sull’ascesa irresistibile del lepenismo). In Italia, l’afasia progettuale dei cosiddetti moderati ha invece lasciato libero campo al radicalismo leghista. Prima di pensare a riunificare il centrodestra per ragioni di convenienza elettorale forse bisognerebbe ricostruirlo sul piano delle idee, dei valori e dei programmi.
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