di Alessandro Campi

untitledLa questione immigrazione ha fatto il suo ingresso prepotente (e per molti versi inaspettato) nella campagna elettorale per le europee. Ci si aspettava battaglia sui temi economici: le ricette contro la crisi e per sostenere occupazione, le polemiche sulle banche e sull’euro, le accuse alla Germania per le sua linea rigorista in materia di conti pubblici. E invece lo scontro si è acceso sui clandestini che a migliaia stanno sbarcando sulle coste della Sicilia, sui centri di accoglienza ormai sull’orlo del collasso, sull’operazione di pattugliamento e soccorso condotta nel Mediterraneo dalla nostra Marina militare, rivelatasi oltremodo costosa e fallimentare.

La gestione dei flussi migratori c’entra poco con l’andamento dello spread e il rispetto del pareggio di bilancio, ma a pensarci bene si tratta di un fenomeno che chiama egualmente in campo l’Europa e le sue spaventose contraddizioni, oltre ad essere lo specchio nel quale si riflettono la debolezza dell’Italia sulla scena internazionale e la mancanza di visione dei suoi gruppi dirigenti.

Quando nei giorni scorsi il ministro degli interni Angelino Alfano ha lanciato l’allarme sul numero crescente di immigrati in arrivo sulle nostre coste, che potrebbero diventare decine di migliaia con l’approssimarsi della bella stagione, si è pensato che il suo fosse un espediente propagandistico-elettorale: un modo, nemmeno troppo elegante visto il suo ruolo istituzionale, per guadagnare consensi nell’area del centrodestra agitando un tema che più di altri si presta ad essere utilizzato in modo strumentale e irresponsabile.

In realtà, come hanno ben documentato in questi le inchieste apparse sul quotidiano Il Mattino, si trattava di un allarme fondato. Dall’inizio dell’anno sono arrivati, partendo dalle coste nordafricane, quasi ventiduemila migranti. Solo a ridosso della Pasqua sono giunti in milleduecento. Il record degli arrivi si è avuto nel 2011, con oltre sessantamila sbarchi: di questo basso quella barriera sarà facilmente infranta.

Ma non è solo un problema di numeri. Colpiscono le modalità con cui si sta realizzando questa nuova ondata di arrivi. La nostra Marina, che si è assunta il meritorio compito di pattugliare i mari per prevenire disastri come quello che nell’ottobre del 2013 costò la vita a centinaia di persone, rischia di diventare il terminale involontario di coloro che gestiscono e organizzano i trasferimenti di esseri umani da un continente all’altro. L’intervento umanitario deciso dall’Italia con l’operazione “Mare Nostrum” è diventato un oggettivo e forse non previsto incentivo per i trafficanti e gli scafisti, che ormai non hanno più nemmeno l’incombenza di dover raggiungere con il loro carico di disperati le coste italiane. È sufficiente abbandonarli in mezzo al mare in attesa dell’intervento dei nostri marinai, che trasbordano i migranti dai loro barconi sui mezzi militari per poi portarli al sicuro nei porti e da qui nei centri di accoglienza. L’ultima parte del trasporto ormai la facciamo noi, al modico costo di nove milioni di euro al mese. E il peggio, a quanto pare, deve ancora venire.

In tutto questo l’Europa non si capisce dove sia. La frontiera mediterranea è continentale, non nazionale, ma l’Italia deve vedersela da sola: sul piano economico (e non sembri un segno di grettezza ricordare che siamo finanziariamente a pezzi, costretti a tagliare spese e stipendi) e su quello logistico-organizzativo. Per di più, ci troviamo costantemente sul banco degli imputati, per bocca dei solerti funzionari di Bruxelles, a causa della cattiva qualità dei nostri centri di accoglienza, ormai stipati all’inverosimile. Non si capisce dove finisca la capacità dell’Italia a trattare con i propri partener dell’Unione per una politica dell’immigrazione autenticamente comunitaria, a costo di battere i pugni sul tavolo, e dove cominci l’ipocrisia travestita da moralismo di chi ci accusa di scarso senso dell’accoglienza nel momento stesso in cui persegue ai propri confini politiche rigide di contenimento degli ingressi, ricorrendo alla forza se necessario.

Ma la debolezza italiana è doppia. Non c’è solo quella verso l’Europa, dalla quale ci limitiamo a prendere ordini senza contropartite, c’è anche quella nei confronti dei Paesi della fascia arabo-mediterranea, sui quali non esercitiamo più alcuna influenza diretta. Il caso più evidente è quello della Libia, dalle cui coste parte la quasi totalità dei clandestini. L’idea avanzata da Luigi Manconi, di gestire le domande d’asilo nei porti di partenza, in modo da contenere gli sbarchi in massa e le successive fughe dai centri, si scontra col fatto che la Libia non è una realtà politicamente pacificata, con la quale si possano al momento stringere accordi vincolanti. Non solo, ma se mai si dovesse stabilire un governo nazionale che non sia in balìa dei gruppi armati e delle lotte tribali l’Italia avrebbe lo stesso difficoltà a interloquire con quel Paese e con la sua dirigenza. La guerra anglo-francese del marzo-ottobre 2011 ci ha spodestati dalla Libia non solo economicamente, ma anche sul piano politico-diplomatico, ha spezzato la nostra storica catena di relazioni. Con in più, accanto al danno, la beffa: le ragioni umanitarie addotte per giustificare la rimozione di Gheddafi e del suo regime hanno sollecitato a suo tempo una vasta coalizione di forze, quelle invocate per salvare gli immigrati e porre fine al loro esodo attraverso deserti e mari, privazioni e violenze d’ogni tipo, oggi trovano una eco solo da parte del governo italiano.

Alfano ha parlato, per l’esattezza, di seicentomila disperati pronti a salpare nelle prossime settimane e mesi. E nessuno, dinnanzi a queste cifre, se l’è sentita di smentirlo o di accusarlo di speculare a fini elettorali. L’Italia, visto che i centri di accoglienza sparsi per la Penisola sono ormai al collasso, dovrebbe aprire – questo già ci viene caldamente consigliato – le caserme, gli edifici pubblici, le chiese e magari anche le residenze private. Quando è invece chiaro che serve un intervento urgente che veda in prima fila – con uomini, mezzi e soldi – l’Unione europea e le Nazioni Unite. Se l’Italia ha ancora una classe politica degna di questo nome e un residuo di credibilità sulla scena globale, è per conseguire questo obiettivo che dovrà battersi in tutte le sedi e nel modo più deciso.

* Articolo apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 23 aprile 2014.

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)