di Danilo Breschi
Libro accattivante ed originale sin dal titolo: “Atene sovietica. Democrazia antica e rivoluzione comunista” (Della Porta Editori, Pisa-Cagliari 2012). Come tiene a precisare sin da subito l’Autore, non si intende dire che gli antichi greci erano comunisti, né che Atene fosse governata da un regime di stampo sovietico. Il lavoro di Carlo Marcaccini, studioso di storia dell’antichità greco-romana, riguarda “l’immaginario dei moderni, non la realtà degli antichi”. Egli non fa altro che prendere sul serio l’invito formulato a suo tempo da Nicole Loraux e Pierre Vidal-Naquet di verificare quali altre forme abbia assunto nella storia il mito “proteiforme” di Atene. Così come i due studiosi francesi misero in luce l’Atene “borghese”, in tal modo declinata e aggettivata dagli intellettuali del Termidoro, Marcaccini ci narra ora quella “rivoluzionaria”, ricostruendo il volto che ad essa vollero dare Marx e la tradizione ideologica e politica che si richiamò al suo magistero.
L’operazione interpretativa compiuta da Marcaccini potrebbe esporsi a qualche critica, dal momento che, per sua stessa ammissione, non è facile rintracciare in Marx e seguaci la polis ateniese quale modello dai contorni ben definiti ed esplicitati. Eppure, lo scrupolo e le cautele metodologiche con le quali ha condotto il suo lavoro ci offrono una lettura penetrante ed originale dell’ideologia marxista, e gettano luce su un nuovo e diverso modo di leggere il grande, annoso tema del rapporto di continuità/discontinuità tra Marx e Lenin, teoria marxiana e pratica rivoluzionaria bolscevica.
Non ci sarebbe contraddizione in Marx, nella sua fascinazione per la comune di villaggio rurale russa, l’“obščina”, e il suo organo decisionale di tipo assembleare, il “mir”, coltivata negli stessi anni in cui cerca nei volumi del “Capitale” di formulare le leggi dello sviluppo di un capitalismo valutato quale premessa indispensabile per una economia socializzata. Esaminando una serie di lettere mai spedite a Vera Zasulič, socialista esule a Ginevra, così come i “Quaderni etnologici”, scritti tra il 1880 e il 1881, si comprende bene come per Marx la comune di villaggio non dovesse essere intesa a mo’ di modello primitivista, come per i populisti russi (i “narodniki”), né tanto meno andasse abolita perché obsoleta. Marcaccini sostiene che non vi fu evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) nel pensiero del filosofo tedesco sul tema. Nel modello ateniese Marx ritenne di aver colto l’essenza di quella vera democrazia in cui sarebbe consistito il tipo di convivenza raggiunto una volta che la società capitalista si fosse estinta, e con essa ogni possibile ulteriore società divisa in classi. Insomma, quel che qui si propone è spiegare forma e sostanza di quella società futura tanto vagheggiata da Marx ma mai esplicitata nei suoi contorni precisi e concreti.
Riprendendo le tesi dell’antropologo americano Lewis Henry Morgan, contenute nel libro “Ancient Society”, Marx sostenne che la società moderna presentava una tendenza interna verso un sistema nuovo che sarebbe stato la rinascita in una forma superiore di una tipologia sociale arcaica. Così scriveva Morgan: “Democrazia nel governo, fratellanza nei rapporti sociali, eguaglianza di diritti e privilegi, ed istruzione per tutti senza discriminazioni; così ci dobbiamo prefigurare quella futura condizione della società verso cui ci spingono costantemente l’esperienza, l’intelligenza e le conoscenze finora accumulate. Sarà una riviviscenza, in forma superiore, della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità delle antiche gentes”. E le “gentes” erano i clan composti da più famiglie, che Marx, con chiari intenti di strategia politica, sovrappose e confuse con la comune di villaggio del contesto russo. Quest’ultima andava protetta, non tanto dalla naturale evoluzione economica, quanto piuttosto dall’artificioso intervento politico dello Stato. Di qui la necessità della rivoluzione in Russia: per impedire la cancellazione delle premesse arcaiche di un futuro che poteva riproporre in forma superiore ciò di cui l’umanità era stata privata, ovvero una dimensione comunitaria e di egualitarismo solidale tale da far riappropriare donne e uomini di sé stessi, della loro più genuina identità.
Tanto Morgan quanto il Marx che lo legge avidamente mescolano passato e presente attraverso una reinterpretazione politica delle vicende costituzionali dell’antica Atene. La storia vissuta dai greci è una prefigurazione di ciò che doveva accadere nel futuro. Morgan aveva come costante punto di riferimento gli Stati Uniti del suo tempo, di cui esaltava le autonomie locali che conferivano al popolo la possibilità di un autogoverno cittadino ben definito dalla residenza territoriale (“township”). Ma la confusione e la sovrapposizione con un’Atene modellizzata e atemporale erano pressoché totali, cosicché la riforma di Clistene che suddivise l’Attica in cento demi, unità amministrative di base, dotate ciascuna di un nome e di un limite territoriale, era vista come una “palestra” rivoluzionaria in cui la politica si trasformava in amministrazione delle cose. Quel che colpì Marx, ma anche Engels, della lettura di Morgan era il racconto dell’assenza di cariche esecutive.
Marcaccini ricorda come quel che Marx ha cercato per tutta la vita di fondare su basi scientifiche sia stata l’idea che la sostanza di ogni società è l’uguaglianza fra i suoi membri. La polis ateniese divenne un modello perché ritenuta storicamente la forma realizzata più vicina al concetto della democrazia primitiva. Non si tratta di una mera questione filologica, dal momento che il contenuto dei “Quaderni etnologici” di Marx, pur pubblicati con un apparato critico soltanto nel 1974, erano già in buona misura noti grazie al celebre trattato di Engels del 1884: “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato in rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan”. Un classico che inaugurò una stagione di studi etnografici marxisti. In esso sono riprodotte molte idee di fondo degli appunti di Marx e vi si ritrova soprattutto l’esempio, tra storia e mito, della democrazia ateniese. Tramite Engels, poi, le idee di Marx sulla lettura antropologica di Morgan giunsero a Lenin, il quale citò proprio “L’origine della famiglia” all’inizio del suo celebre scritto “Stato e rivoluzione”. Fu poi l’unico lavoro che pensò bene di menzionare nella conferenza “Sullo Stato”, tenuta nel luglio del 1919 davanti agli studenti dell’Università Sverdlov. Non c’è un riferimento esplicito al modello politico antico, ma Lenin utilizza quella stessa idea di “democrazia primitiva” con cui Marx, Engels e altri socialisti tedeschi intendevano affermare l’esistenza storica, e dunque la plausibilità politica, di un regime perfettamente egualitario e a-classista. Il mito dell’antica comunità organica in cui si fondono il pubblico, il politico e il sociale.
È tanto cruciale quanto eloquente la seguente affermazione di Lenin: “in regime socialista rivivranno necessariamente molti aspetti della democrazia ‘primitiva’, perché per la prima volta nella storia delle società civili la massa della popolazione si eleverà a una partecipazione indipendente, non solo nelle votazioni e nelle elezioni, ma nell’amministrazione quotidiana. In regime socialista – concludeva Lenin – tutti governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sì che nessuno governi”. Altrove, l’artefice della rivoluzione d’ottobre chiama “democratismo primitivo” la gestione diretta delle funzioni che prima venivano esercitate dalla casta dei burocrati. È il coinvolgimento del popolo negli affari di governo. La differenza, fondamentale, rispetto all’antichità è che lo sviluppo tecnologico avrebbe agevolato la partecipazione collettiva all’amministrazione pubblica, ridotta ad attività semplificata e perciò esplicabile da tutti con un minimo di istruzione e a retribuzione contenuta, sul livello di un “salario da operai”. Il ritorno alle origini della polis è favorito proprio dall’avvento delle macchine nel processo produttivo, dal momento che esse rendono superflui gli schiavi, persino inutilmente costosi, anche in termini politici.
“Inventario e controllo”, scrive Lenin in “Stato e rivoluzione”, e Marcaccini commenta: “se tutti vengono impiegati in base a un programma prestabilito, le ore di lavoro potranno diminuire e ci sarà più tempo libero”. L’organizzazione del lavoro tramite i soviet consente di affidare l’intero processo produttivo al controllo popolare e di creare una amministrazione realmente diretta dello stato, in cui la figura del cittadino della polis ateniese corrisponde adesso all’intera popolazione, perché non vi sarà più l’esclusione di schiavi e donne. L’integrazione forzata di tutti i lavoratori nei soviet avrebbe rimosso la cultura individualistica della piccola azienda tipica dei contadini. La fine sarebbe stata il ritorno all’inizio.
C’è di più nella utopia sovietica di Lenin, la quale, secondo Marcaccini, si sarebbe nutrita fra il 1909 e il 1911 della lettura incrociata di Nikolaj Černyševskij e Paul Lafargue. Dal primo, e dal suo celebre romanzo “Che fare?” (1863), trasse l’idea di un futuro radioso e gaudente grazie all’emancipazione dal lavoro, ideale supremo riconosciuto alla cultura della polis, dove il cittadino aveva vinto la plurisecolare sfida contro la terra e la natura, e si era infine conquistato la libertà, ovvero il diritto all’otium. Ed è proprio di questo che trattava l’omonimo pamphlet di Lafargue (1880), di un diritto all’ozio ottenuto in virtù di un progresso scientifico e tecnologico prossimo a consentire la realizzazione dell’antico ideale del cittadino ateniese, di cui si esaltava il disprezzo per il lavoro, inteso come tempo sottratto alle occupazioni liberali e al potenziamento illimitato delle capacità intellettuali e morali di ciascuno. Il sogno di Aristotele, di strumenti capaci di muoversi da soli come i tripodi di Efesto, sembrava diventare realtà alla vigilia del XX secolo. E cosa direbbe oggi Lafargue di fronte all’imminente robotizzazione dell’intera vecchia catena di montaggio?
Oggi che si fa un gran parlare di “decrescita” colpiscono certe tesi di Marx, Engels, della tradizione marxista e, su tutti, di Lenin e quella sua idea di stato sovietico come di una “polis più tecnologia”. Non ne sono sicuro, ma è possibile che la recente proposta di un sistema capace di garantire una “abbondanza senza crescita”, così come formulata dal team della Sustainable Development Commission di Tim Jackson, riproponga scenari cari a Marx e al suo seguace più coerente, colui che è stato l’unico efficace traduttore pratico della teoria, ossia il vero, perché vincente, rivoluzionario: il Lenin del 1917.
È lo scenario di un’economia stazionaria, sì, ma verso l’alto, cioè saldamente ancorata ad elevati livelli di produttività e benessere, con un recuperato senso di prosperità, determinato non più dalla condizione materiale, standardizzata in positivo (si sta tutti sufficientemente bene), ma misurato dalla qualità affettiva e relazionale dell’esistenza di ognuno. Attenzione, però: non si trattava per Lafargue, Lenin e compagni di un ideale epicureo. Nessun bengodi di oziosi coltivatori di virtù superiori. La vittoria sulle forze della natura prevedeva che il lavoro di tutti fosse organizzato con disciplina ferrea e con ordine pianificato in ogni minimo dettaglio. Se non si lavora tutti, e si elimina così la pigrizia eccessiva – perché totale ed assoluta – di alcuni, non avremo mai un diritto universale alla pigrizia, a quel tanto di essa che può esser consentita dalla combinazione, creata e guidata dall’alto, di organizzazione sistematica e innovazione tecnologica applicata. Il problema dell’ingiunzione paradossale insita nella coazione alla libertà e all’eguaglianza (“Sii libero ed eguale!!”) si propose a Lenin, si ripropone a noi. E resta insopprimibile la tentazione di prendere la democrazia alla lettera, “da tutti con tutti per tutti su tutto”, come se l’etimologia fosse la verità da realizzare. A ciò si aggiunga il mito di un tempo e luogo in cui l’evento accadde, l’Atene di Clistene, eretta a paradigma e sogno sempre rinnovellati, nonostante le dure repliche della storia.
Commenti (2)
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andrea baccelli
Mi sembra uno studio molto presuntuoso e confuso. La democrazia ateniese era un’utopia anche per il nazismo, si pensi alle fattorie di Hjalmar Schacht, ed è sempre stata un’utopia a partire dal rinascimento.