di Danilo Breschi
“L’informazione si è assolutizzata. Non si sarà più informati su niente. Non essere informati (e il meno possibile anche sul proprio corpo) protegge la ragione” [Guido Ceronetti, “L’occhio del barbagianni”, Adelphi 2014, pensiero 87].
C’è una bulimia di informazioni, mi verrebbe da dire: “infornazioni”, perché è come se ti infilassero nel forno elettrico ogni volta che sei bersagliato da notizie, che magari è colpa tua, di te che le hai cercate come pane quotidiano. E da predatore finisci, come sempre, preda. Infornato. Altro che informato! E il tutto è sfornato da quei micidiali microonde della carta stampata, della tv, del web, dove ognuno di noi può farsi beffardo o zelante infornatore. E col web, così, da preda puoi goderti i tuoi 15 minuti da predatore dell’ingenuità altrui. Su Twitter e tutti gli altri social (?) media distinguere, ragionare, mediare è quanto meno faticoso, quando non inutile. Senz’altro non redditizio, perché, come ha dimostrato una recente ricerca della Data Driven Journalism School di Lucca, ciò che è istituzionale o percepito come tale fatica a trascinare le masse del Web. E così anche tutto ciò che è ragionamento minimamente articolato, necessariamente disteso e pacato, perché argomentativo e sia critico sia autocritico.
Dunque, Ceronetti coglie ancora una volta nel segno. Una bulimia di dati che di per sé non fanno conoscenza, non aiutano ad accrescerla. Anzi. Perché la crescita della conoscenza si misura in termini di “verità”, tremenda parola, bandita, quasi un tabù, o una bizzarria, ma è di un’approssimazione ad essa che qui si parla, ed è per amor di verità che la conoscenza può essere davvero desiderata. Che è poi come a dire: filosofia. Amor di avvicinarsi quanto più possibile al vero, alla “sapienza”, quella Sophía potentemente fascinosa ed accogliente come la Loren del tempo che fu. Memori, con Lacan, che “dirla tutta è materialmente impossibile: mancano le parole”, lo sforzo e la tensione verso la verità restano, devono in noi sorgere e restare vivi e inalterati.
Ma senza cultura la conoscenza è cibo incommestibile. Senza cultura è come se si fosse stati invitati ad un banchetto luculliano, anzi pantagruelico, di quelli che richiedono un appetito smodato, da lupi incattiviti da un lungo digiuno, e ci accorgessimo troppo tardi, vegliardi come siamo, di aver dimenticato la dentiera a casa. Perché la cultura compie il miracolo di invertire il senso del tempo: da giovani sdentati ci trasforma in vecchi dotati di zanne d’acciaio. Senza cultura la soluzione prediletta per non far soffrire la fame pare oggi essere quella di privare l’uomo e la donna sin dalla più tenera età di ogni pur minimo istinto famelico che non sia indirizzato dalla cintola in giù… Sapessero quei poveri giovani quanto il corpo, sotto e sopra la cintola, si inebria e s’innalza se nutrito di cultura.
Ma la cultura poi cos’è? È coltivazione, ma anche per coltivare bisogna saperlo fare, altrimenti quel terreno, pur fertile, non darà alcun frutto. A saper coltivare devono provvedere il saper insegnare e poi lo studiare, tanto di chi insegna, tanto di chi apprende. In latino il verbo studere comporta il “dedicarsi a”, l’“aspirare a qualche cosa” (di non noto, non ancora), l’“applicarsi attivamente”. Studio è una forma di disciplina anzitutto interiore, e dunque una forma di costruzione di sé. Ci si forma, si dà forma a se stessi, attraverso una continua scoperta. Un’avventura, non un’improvvisazione.
Ma ci sono ancora, eccome, tanti giovani, ragazze e ragazzi, che lo sanno, lo sanno bene. Fate sapere in giro che ci sono ancora sacche di resistenza e oasi di libertà ospitate dentro aule scolastiche e universitarie, anche se malmesse e non ancora ristrutturate dal piano scuola di Renzi. Il Patto Educativo e la Buona Scuola già ci sono, ci sono sempre state, ma occorre che anzitutto genitori e insegnanti se ne facciano portatori e portavoce, contro i mestatori interni. Politica e governo seguiranno a ruota. Sacche di resistenza all’innovazione per l’innovazione, oasi di libertà dal conformismo che vuole espungere tutto ciò che è “classico” e tradizione come trasmissione di sapere vero, autentico, radicale perché proveniente dalla e risalente alla radice, dunque, come tale, faticoso, tanto da insegnare quanto da apprendere. Resta sempre da meditare l’affermazione di Hannah Arendt, secondo cui “la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino”. Ciò non significa che la scuola debba tornare “alle chiusure, agli autoritarismi e agli schematismi del passato”. Arendt “ci mette semplicemente in guardia dal rischio che la scuola si faccia troppo ‘sperimentale’ e che, in questo modo, essa possa contribuire a creare sradicamento, mancanza di senso di ciò che si insegna e si fa. Può sembrare banale, ma ciò che contraddistingue un qualsiasi “esperimento” è la possibilità che esso fallisca. Quando si fanno esperimenti bisogna sempre mettere il fallimento nel conto. La scienza, si sa, impara proprio dai suoi errori; cresce addirittura grazie a questi. Ma non è così quando si parla di educazione. Un esperimento educativo fallito è una catastrofe senza compensi. La scienza pedagogica potrebbe trarne certo qualche insegnamento, ma per il bambino che ne ha fatto le spese è una perdita secca, una perdita irrimediabile, visto che non avrà più la possibilità di ripeterlo, di ritornare a scuola in un altro modo”. È Sergio Belardinelli, che insegna Sociologia dei processi culturali e informativi presso l’Università di Bologna, a chiarirci tutto questo e a ricordarci inoltre come siano “precisamente coloro che sentono di appartenere a una storia, a una trama generazionale, ad avere, non sembri paradossale, maggiori capacità di sfruttare al meglio le grandi opportunità del nostro tempo; sono coloro che hanno acquisito coscienza di sé, del proprio ‘io’, ad essere più capaci di incontrare e dialogare con gli altri”.
È appena uscito per Laterza un agile ma denso pamphlet di Paola Mastrocola (“La passione ribelle”, Laterza), scrittrice e insegnante di Lettere in un liceo scientifico, la quale non esita a dichiarare: “Abbiamo solo un modo di cambiare le cose: metterci a studiare (…). Ti ribelli, spegni cellulari, computer, mail, messaggi, tivù, radio, carriere, piani finanziari, viaggi, relazioni. Spegni. Te ne vai. Tanti saluti. Pensi. Studi. Allora sì che lo studio diventerebbe il gesto più rivoluzionario che possiamo compiere”. Fermarsi, stare fermi, conservare alcuni gesti antichi, appositamente riesumati, è atto estremo di eversione rispetto ad una società che scorre al ritmo isterico degli spot di Mtv e dei videoclip dell’ennesimo rapper tatuato, sempre rancorosamente, inutilmente logorroico. E infatti Mastrocola aggiunge: “Chi studia è sempre un ribelle. Uno che si mette da un’altra parte rispetto al mondo e, a suo modo, ne contrasta la corsa. Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e contrario”.
Per compiere questa rivoluzione conservatrice, o conservazione rivoluzionaria, in un mondo che muta troppo rapidamente, sradica e disorienta, facendoci smarrire la nostra “humanitas”, ripartiamo dalle aule dove persistono amore di insegnamento e rigore nell’apprendimento, severità di insegnamento e amore per l’apprendimento. Niente di più gioioso e gratificante che insegnare, niente di più entusiasmante e nutriente che apprendere. E chi insegna, mentre insegna, sempre qualcosa impara, così come chi apprende, mentre apprende, sempre qualcosa insegna. Un buon anno scolastico a tutti.
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