di Federico Donelli
Se nel 2010 una nave – la Mavi Marmara – aveva generato la rottura dei rapporti diplomatici tra la Turchia e Israele, oggi, un’altra nave – la Lady Leyla -, potrebbe aver sancito il definitivo riavvicinamento tra i due paesi, nonché aperto a nuovi scenari, fino a poche settimane fa inimmaginabili, per i futuri equilibri del Medio Oriente.
Nel maggio del 2010 le forze speciali israeliane intercettarono in acque internazionali sei imbarcazioni (Freedom Flotilla) contenenti aiuti umanitari destinati ai territori della Striscia di Gaza dove vigeva e vige l’embargo imposto da Israele ed Egitto a partire dal 2007. Cinque navi furono abbordate senza l’uso della forza, mentre l’equipaggio della sesta, la più grande della flotta (la Mavi Marmara), oppose resistenza con coltelli e bastoni, costringendo le forze speciali israeliane a una reazione sproporzionata. Nel raid persero la vita dieci attivisti turchi appartenenti alla Fondazione per i Diritti dell’Uomo e l’Aiuto Umanitario (İHH), una ONG islamica molto vicina al governo turco e nello specifico all’attuale Presidente Recep Tayyip Erdoğan. La Turchia reagì richiamando il proprio ambasciatore da Tel Aviv, dichiarando il massimo diplomatico israeliano “persona non grata” in Turchia, e definendo l’operazione israeliana un atto di “terrorismo di stato”. Immediata conseguenza fu l’interruzione delle relazioni diplomatiche e la sospensione della collaborazione in settori chiave, tra cui la difesa e l’intelligence. A distanza di pochi giorni, su pressioni internazionali, tra cui quelle del Presidente americano Barack Obama, Ankara aprì alla possibilità di una normalizzazione dei rapporti a condizione che venissero soddisfatte tre precise richieste: scuse formali da parte di Israele, compensazione economica alle famiglie delle vittime e la rimozione del blocco navale verso Gaza. Il governo di Tel Aviv difese la legittimità della propria operazione in quanto necessaria ad assicurare non solo la sicurezza nazionale ma anche la sicurezza mediterranea minacciata, a detta di Israele, dalla possibilità che venisse installata una base missilistica iraniana a Gaza.
L’incidente della Mavi Marmare esacerbò tensioni latenti tra i due paesi, ma soprattutto diede a Erdoğan e al suo partito Giustizia e Sviluppo (AKP) l’opportunità di consolidare l’immagine nel mondo musulmano, ergendosi a protettore del popolo palestinese e accentuando l’uso di una retorica anti-israeliana dai toni fortemente anti-semiti. Le scelte politiche turche furono inevitabilmente condizionate dal contesto interno e dalle contingenze regionali del periodo. Nel 2010, a pochi mesi dallo scoppio delle rivolte arabe, la Turchia manteneva – fino a quel momento con ottimi risultati – una politica di normalizzazione dei rapporti con i vicini regionali (Zero problemi) con l’intento di consolidare il proprio ruolo di media potenza, nonché di rafforzare l’interdipendenza economico commerciale con il Medio Oriente. In un’agenda politica multi-vettoriale, rivolta soprattutto al mondo arabo e musulmano, la consolidata amicizia e partnership con lo Stato ebraico rappresentava un ostacolo per alcuni paesi insormontabile (Siria, Iran). Di conseguenza, il governo turco scelse consapevolmente di sacrificare l’alleanza con Israele in nome delle proprie ambizioni di leadership regionale. Occorre tuttavia sottolineare come il raffreddamento dei rapporti diplomatici e la sospensione della collaborazione militare – esercitazioni congiunte e scambio di informazioni – tra i due paesi non abbia compromesso le relazioni commerciali che, al contrario, dal 2010 a oggi hanno continuato a crescere, passando da un volume di scambio di 1.5 miliardi di dollari ai 5.6 miliardi di dollari di fine 2015. Allo stesso tempo la Turchia è rimasta una delle mete privilegiate del turismo medio-alto israeliano.
Nei sei anni trascorsi dall’incidente, Israele ha più volte teso la mano alla Turchia; nel 2013 attraverso scuse formali al governo turco, e l’anno successivo impegnandosi a pagare un risarcimento alle famiglie delle vittime. In cambio, la diplomazia di Tel Aviv chiese alla Turchia di utilizzare i canali privilegiati con Hamas affinché restituisse i corpi dei due soldati israeliani uccisi durante la guerra di Gaza (2014), e di non consentire a Salah al-Arouri, membro operativo della stessa organizzazione terroristica, di operare liberamente a Istanbul da dove, secondo l’intelligence israeliana, preparerebbe attentati in Cisgiordania. L’unica richiesta sulla quale il governo israeliano rimase sempre inamovibile era la terza, riguardante il blocco di Gaza, poiché la sicurezza nazionale non era, e non è tuttora, negoziabile. Nello stesso periodo, la Turchia non è sempre stata convinta che la normalizzazione dei rapporti con Israele avrebbe avuto ricadute positive alla propria politica estera e ai propri interessi regionali. Tuttavia, dal maggio del 2010 lo scenario è profondamente mutato per il paese anatolico, a causa del continuo intrecciarsi di dinamiche interne e regionali: la polarizzazione politica interna (pro o contro Erdoğan), il risveglio del separatismo curdo (PKK, TAK), l’accentramento dei poteri nelle mani del solo Erdoğan (riforma costituzionale?), la negazione del dissenso interno (Gezi Parkı, libertà di stampa), gli oltre tre milioni di rifugiati provenienti dalla Siria (cambio equilibri demografici), la violenta repressione nelle province del sud-est (guerra civile?), la frattura con la Russia e i violenti attacchi terroristici compiuti da militanti Daesh.
I cambiamenti hanno favorito la fine dell’irrigidimento e aperto a nuove opzioni distensive. Dopo mesi di trattative sottotraccia, il 26 giugno i due paesi hanno raggiunto un accordo a Roma che prevede oltre alle rinnovate scuse da parte del governo di Tel Aviv, lo stanziamento di 20 milioni di dollari per le famiglie degli attivisti uccisi nel raid e, soprattutto, viene concesso alla Turchia l’invio di aiuti umanitari a Gaza per un carico massimo di 10.000 tonnellate. Il 1 luglio la nave Lady Leyla, ha lasciato il porto turco di Mersin con a bordo 2.000 tonnellate di riso, 5.000 di farina, 10.000 giochi, medicinali destinati ai territori della Striscia di Gaza. La nave attraccherà nel porto di Ashdod, in territorio israeliano, dove le merci verranno ispezionate dalle autorità prima di essere distribuite alla popolazione in occasione dei festeggiamenti per la fine del Ramadan. Stessa sorte toccherà al materiale destinato allo sviluppo di futuri progetti che la Turchia vorrà sviluppare all’interno della Striscia di Gaza. Prima di formalizzare la riapertura delle sedi diplomatiche Israele e Turchia hanno inoltre dovuto confrontarsi con i rispettivi alleati – Russia ed Egitto da una parte; Hamas e Maḥmūd ʿAbbās dall’altra – rassicurandoli sulla bontà e utilità dell’iniziativa. Nessuna menzione è stata fatta per ciò che concerne le attività di Hamas in territorio turco, che, stando alle parole del Primo Ministro Binali Yildirim, non dovrebbero venire in alcun modo ostacolati; tuttavia, la Turchia si è impegnata ad assicurare gli uffici di Hamas su suolo turco perseguano unicamente finalità politiche.
La riapertura diplomatica tra Israele e Turchia è presto diventata un manifesto di “realpolitik”, di reciproco interesse nazionale – oltre che statunitense – a cui concorrono una molteplicità di ragioni strategiche, politiche ed energetiche. I due paesi, infatti, hanno capito che in questo momento conviene a entrambi collaborare piuttosto che restare arenati su posizioni distanti e, apparentemente, inconciliabili. Dal punto di vista strategico un primo segnale di cambiamento si è avuto con l’approvazione da parte della NATO di aprire un ufficio di rappresentanza israeliano nel proprio quartier generale di Bruxelles. Una decisione presa a cinque anni di distanza dalla richiesta formale da parte del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che rafforza il ruolo di Israele in quanto partner NATO nell’iniziativa strategica denominata Dialogo Mediterraneo. A determinare l’improvvisa accelerata l’ammorbidimento della posizione turca, negli ultimi anni fermamente contraria al consolidamento del ruolo israeliano in seno all’Alleanza Atlantica. Pesano gli equilibri interni alla Turchia, mutati dopo le elezioni del giugno 2015, con la ritrovata sintonia tra il Presidente Erdoğan e l’establishment militare, da sempre favorevole alla partnership con lo Stato ebraico in materia di difesa e sicurezza. In passato Israele ha compiuto diverse operazioni di sorveglianza e intelligence di Siria e Iran usufruendo del supporto turco. Il governo di Ankara è consapevole che le conoscenze e l’esperienza della intelligence israeliana possono risultare particolarmente utili in un momento critico in cui la Turchia è diventata il bersaglio privilegiato del terrorismo di matrice islamica, ne è riprova il recente attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul. Israele è consapevole che il fanatismo jihadista rappresenta un nemico comune. Negli ultimi mesi vi sarebbero stati diversi incontri tra i vertici dei servizi segreti (Mossad e MIT) durante i quali si è parlato soprattutto di gruppi terroristici locali legati al Daesh. Fino alla primavera scorsa uno degli obiettivi dei militanti erano i cittadini ebrei residenti all’estero – inclusa la Turchia (attentato di Istanbul a marzo) –, ma, interrogatori più recenti, avrebbero svelato come l’organizzazione miri a esportare il terrore anche sul suolo israeliano, dove è di pochi giorni fa la prima rivendicazione a firma Daesh.
Dal punto di vista politico, la riapertura delle relazioni con Israele ha rotto l’isolamento diplomatico con i vicini regionali in cui la Turchia si era ritrovata dopo lo scoppio della crisi siriana e la destituzione dei Fratelli Musulmani in Egitto. Israele negli ultimi anni ha dimostrato di collaborare con altri paesi musulmani a maggioranza sunnita, inclusa l’Arabia Saudita con cui non ha relazioni diplomatiche ufficiali, sulla base della comune opposizione all’avanzata Daesh e ai progetti egemonici iraniani. Inoltre, sia la Turchia sia Israele sono coinvolti, in misura diversa, nella guerra civile siriana, entrata nel suo quinto anno, che costituisce una costante minaccia di instabilità lungo i propri confini. In tale ottica la normalizzazione dei rapporti può aiutare nella ricerca di un approccio comune e condiviso alla crisi. Da evidenziare che i due paesi hanno già cooperato in Iraq, altro fronte caldo della regione, sostenendo politicamente, economicamente – attraverso l’acquisto di greggio – la formazione di un’entità autonoma curda. Inoltre, da Tel Aviv sperano di sfruttare a proprio vantaggio il forte ascendente turco nei confronti sia di Al-Fatah, sia di Hamas. Per questo motivo, consentire l’invio di aiuti e lo sviluppo di progetti nei territori della Striscia di Gaza potrebbe rafforzare ulteriormente il legame tra la Turchia e il popolo palestinese, portando Ankara – Egitto permettendo – ad assumere un ruolo di mediatore credibile e influente nella questione palestinese.
Dietro la distensione tra la Turchia e Israele vi sono però anche ragioni di natura economica e più precisamente di stampo energetico. Da diversi mesi il raffreddamento delle relazioni con la Russia ha spinto la Turchia a cercare reti di approvvigionamento alternative per supplire alla crescente domanda interna; tra queste anche i giacimenti di gas naturale scoperti negli ultimi anni da Israele: Tamar (nel 2009); Leviathan (2010) e Zohr (2015). L’idea del governo israeliano è non solo di diventare fornitore della Turchia ma di sfruttare la sua posizione strategica di vero e proprio “hub energetico” per esportare in Europa. In fase di progettazione vi sarebbe infatti un gasdotto lungo 470km in grado di trasportare circa 16 tonnellate di gas dal offshore israeliano al territorio europeo via Turchia. Per sintetizzare, si potrebbe dire che la Turchia abbia bisogno del gas israeliano tanto quanto Israele abbia necessità del mercato e del corridoio turco per esportare il proprio gas.
Nonostante gli sviluppi positivi delle ultime settimane, dubbi permangono soprattutto per ciò che concerne i reciproci sospetti. La rottura del 2010 ha infatti portato entrambi i paesi a guardare verso nuove alleanze: se da una parte Israele si è avvicinato molto a paesi tendenzialmente ostili alla Turchia (Cipro, Grecia ed Egitto), dall’altra parte Ankara ha stretto legami sottotraccia con l’Iran, acerrimo nemico israeliano, e sostenuto attivamente Hamas. La futura alleanza dovrà necessariamente passare attraverso il completo superamento delle reciproche diffidenze, fondando non solo su valutazioni pragmatiche legate all’interesse nazionale (sicurezza, energetico) ma anche su una indispensabile fiducia nelle intenzioni dell’altro. L’aspetto più curioso del recente cambiamento di rotta turco è dato dal fatto che avvenga a poche settimane di distanza dall’uscita di scena del suo artefice, nonché principale promotore, l’ex Primo Ministro Ahmet Davutoğlu.
Seppure si rimanga ancora nel campo delle ipotesi, a maggior ragione in virtù del fatto che mai quanto negli ultimi cinque anni lo scenario geopolitico mediorientale ha mostrato di mutare in maniera rapida e imprevedibile, è possibile immaginare un futuro asse tra Israele e Turchia volto a garantire maggiore stabilità alla regione. In quest’ottica deve essere compresa anche la telefonata di Erdoğan al Presidente russo Putin, con le scuse ufficiali per l’abbattimento del jet russo nel novembre scorso. Un’apertura verso una prossima normalizzazione dei rapporti anche tra Russia e Turchia che può aiutare sia a trovare una soluzione alla guerra civile siriana sia nel contrastare il terrorismo internazionale (la mente dell’attacco all’aeroporto di Istanbul era ceceno). Probabile che gli Stati Uniti, in particolare nella figura del vice presidente Joe Biden e del candidato democratico alla presidenza Hilary Clinton – da sempre fautrice di un irrobustimento dei rapporti con la Turchia -, facciano pressioni affinché vi sia un disgelo anche nelle relazioni tra l’Egitto e Ankara.
Occorrerà però capire se la Turchia, o per meglio dire Erdoğan, sarà disposto o meno a sacrificare il rapporto con la Fratellanza Musulmana e a rinunciare a buona parte della propria retorica di leadership del mondo musulmano. Il Presidente turco ha abituato a giocare contemporaneamente su più tavoli, un’isteria che gli è costata molto in termini di credibilità e popolarità internazionale, probabile che ora, viste anche le crescenti tensioni interne, decida di adottare un profilo più basso, seguendo una linea conciliante con gli alleati tradizionalmente vicini alla Turchia.
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