di Maurizio Griffo
La scissione del Pd, che Renzi ha promosso nei giorni scorsi, si presta a letture differenziate. In prima battuta la si può interpretare come una conferma dei difetti dell’ex presidente del consiglio. La vicenda confermerebbe che le qualità politiche renziane si riducono ad una spregiudicata capacità tattica. Cosa che gli consente efficaci manovre spiazzanti, come quella che la scorsa estate ha aperto la strada all’accordo tra Pd e grillini, ma gli impedisce progetti di più ampio respiro. Basti pensare alla gestione del dopo referendum del dicembre 2016. In quella circostanza, dopo aver annunciato che in caso di sconfitta si sarebbe allontanato dalla politica, Renzi si limitò a dimettersi da presidente del consiglio. Se si fosse ritirato nel paesello natale avrebbe rafforzato, nel medio periodo, la sua posizione. Ma una simile scelta era incompatibile con il presenzialismo presentista che sembra essere la cifra del suo agire politico.
Un’altra critica, anche più dura, che è stata mossa all’ex presidente del consiglio riporta la nascita di “Italia viva” (questo il non entusiasmante nome della nuova formazione) al desiderio di poter partecipare in maniera più sostanziosa alle nomine negli enti pubblici cui si dovrà provvedere prossimamente. La mossa di Renzi, allora, non sarebbe da interpretare solo in una dinamica trasformista, ma anche e soprattutto in una logica spartitoria.
La scissione ha offerto il destro anche a considerazioni di carattere storico-retrospettivo, volte a sottolineare come le vicende dei partiti della sinistra italiana siano state sempre contrassegnate da scissioni e accanite lotte intestine. Una caratteristica che era propria anzitutto del movimento socialista, ma che ha caratterizzato gli eredi del Pci divisi tra ex comunisti e nostalgici del comunismo. Riflessioni giuste ma forse non pertinenti nel caso in questione perché il Pd nasce come unione tra ex comunisti e democristiani di sinistra.
Tuttavia della scissione renziana è possibile dare anche una lettura diversa che, senza occuparsi della fondatezza dei precedenti storici o delle peculiarità del carattere di Renzi e delle sue mire di potere, si concentri sugli equilibri del sistema politico. Il governo giallorosso, come è stato definito il Conte bis, nasce dall’accordo di due forze politiche diverse che, al di là di possibili convergenze programmatiche, sono divise da un crinale essenziale. Il Pd, pur se attraversato da pulsioni massimaliste, è un partito pro sistema, cioè un partito che accetta le regole del gioco democratico. Il Movimento 5Stelle, invece, è una forza antisistema che nasce su di una piattaforma di ripulsa e di disprezzo per la politica (i vaffa day), e che vuole superare la democrazia costituzionale rappresentativa come mostrano anche le cosiddette proposte di riforma costituzionale portate avanti nell’ultimo anno (riduzione punitiva dei parlamentari, referendum propositivi senza quorum e senza limiti).
Un governo 5Stelle Pd rischia di essere un governo a trazione grillina non solo per i rapporti di forza in parlamento ma anche perché le componenti massimaliste del Pd possono sentirsi in sintonia con alcune posizioni pentastellate (decrescita felice, antiindustrialismo, per non dire del giustizialismo). Creare in parlamento un altro gruppo politico che entra a far parte a pieno titolo del governo significa accrescere il peso contrattuale delle componenti pro sistema dell’esecutivo e contrastare le derive massimaliste e antipolitiche. Anche perché “Italia viva” dispone di un potere di coalizione autonomo e può far pesare la minaccia dello scioglimento anticipato delle camere che i 5stelle temono più di ogni altra cosa.
In sostanza, piaccia o meno lo stile politico renziano, esaminata sotto il profilo della funzionalità del nostro sistema politico, la nascita della nuova formazione va giudicata positivamente perché rafforza, almeno un pochino, la fragile e malmessa democrazia italiana.
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