di Alessandro Campi
ASTANA – All’epoca dell’Expo milanese quello del Kazakistan fu tra i padiglioni più visitati e ammirati. Già l’ingresso era stupefacente: con la tecnica del Sand Painting (le figure animate realizzate con la sabbia) un’artista in costume tradizionale raccontava di un popolo nomade, fiero e coraggioso divenuto una nazione prospera, indipendente e libera (libera, non esageriamo).
Nell’interno della struttura si mostravano i successi ottenuti dal Paese nel campo dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’acquacultura (con la vasca degli storioni del Caspio e la possibilità di degustare il celebre caviale). E si magnificava l’edificazione dal niente della nuova capitale Astana: un deserto stepposo divenuto una città ultramoderna con palazzi scintillanti e costruzioni avveniristiche firmate da grandi architetti. Il passaggio da una sala all’altra era in effetti una continua sorpresa, grazie anche all’uso di ogni genere di tecnologia interattiva.
Tutto questo sforzo doveva servire come biglietto da visita per l’Expo internazionale che il Kazakistan avrebbe ospitato nel 2017: il primo in un paese ex-comunista. Ma non tutto a quanto pare è andato secondo i piani. Inaugurato il 10 giugno di quest’anno con la partecipazione di 113 Paesi, costato (per difetto) tre miliardi e mezzo di dollari, l’Expo di Astana avrebbe dovuto attirare sette milioni di visitatori da tutto il mondo. Alla fine, secondo le previsioni più ottimistiche, saranno due milioni e mezzo: quasi tutti kazaki.
Il primo a non credere nell’evento è stato paradossalmente il governo, che ha investito poco o nulla in promozione fuori dai confini. Debbono aver pesato le polemiche sui costi esorbitanti che ne hanno accompagnato la realizzazione. Il Kazakistan è un paese spaventosamente grande (quanto tutta l’Europa occidentale), ricchissimo di materie prime e con appena 15 milioni di abitanti. Negli ultimi due decenni, grazie soprattutto al petrolio, è cresciuto a ritmi esponenziali. Ma vuoi le spese faraoniche volute in questi anni dal leader Nursultan Nazarbaev (ininterrottamente al potere dal 1984), vuoi la corruzione dilagante tra gli oligarchi che governano il Paese, vuoi soprattutto il crollo del prezzo del greggio sui mercati internazionali, alla fine si è preferito non spendere troppi altri soldi. Col potere d’acquisto dei cittadini ridottosi in due anni del 30-40%, meglio non alimentarne il crescente malumore.
L’Expo doveva presentare al mondo il Kazakistan del futuro: è invece divenuto un appuntamento ad uso interno. A parte l’inaugurazione se ne è parlato pochissimo, di turisti non se ne sono visti, ma alla fine Nazarbaev potrà dire ai kazaki di aver regalato loro un evento grandioso e spettacolare di cui essere comunque orgogliosi. Nella speranza altresì che non sia l’ultimo regalo al suo popolo. Da queste parti, infatti, non ci si chiede solo quanto sia costato realmente quest’Expo, ma anche (forse soprattutto) cosa ne sarà del Kazakistan dopo l’uscita di scena di Nursultan. Che è certo il dittatore megalomane che molti dipingono, ma è anche colui che ha dato ai suoi cittadini un benessere relativamente diffuso. Che ha bloccato sul nascere qualunque insorgenza di estremismo islamico-salafita (da modernizzatore di formazione comunista ha vietato le barbe lunghe agli uomini e lo hijab alle donne col pretesto che sono estranei ai costumi kazaki). Che è riuscito a tenere in relativa armonia le diverse componenti tribali ed etniche presenti nel Paese. E che ha persino messo in campo una riforma costituzionale con la quale, beninteso quando lui avrà lasciato il potere, si potranno dare maggiori poteri al Parlamento e al Governo (oggi tutti incentrati sulla Presidenza). Anche se in un Paese così, gigante a dominanza islamica costretto a vedersela con gli appetiti della Russia e della Cina, inserito geo-politicamente in un groviglio etnico-religioso potenzialmente esplosivo, nessuno speri di vedere instaurarsi un giorno una bella democrazia parlamentare sul modello occidentale.
Per tornare all’Expo, il suo parziale o mancato successo (lo vedremo il giorno della chiusura, il 10 settembre) è un peccato, visto l’interesse del tema scelto per quest’edizione: “Future Energy”. Girando tra i padiglioni (quello del Kazakistan, un’enorme palla di vetro e acciaio, è una fantasmagoria tecnologico-architettonica che da solo vale il viaggio) si vede di tutto: progetti non propriamente attenti alla salvaguardia ambientale, proposte avveniristiche che lasciano immaginare un pianeta pulito e startup tanto fantasiose da parere irrealizzabili.
L’obiettivo dei russi è quello di perforare la calotta artica (che poi non sarebbe nemmeno la loro) per estrarne petrolio e gas. I turchi promuovono i loro gasdotti. Gli iraniani ci tengono a mostrarsi una potenza nucleare alla faccia degli americani, i quali dal canto loro ad Astana hanno bissato il flop creativo-organizzativo dell’Expo milanese limitandosi a dire che “l’energia è in ognuno di noi”. I giapponesi, pentiti per aver scelto il nucleare, stanno puntando tutto sulla forza del vento, del sole e del mare. I coreani lavorano sui combustili ad idrogeno. I cinesi pensano a come costruire centrali atomiche spaziali. I thailandesi stanno investendo sull’energia verde generata dalle biomasse. La Gran Bretagna, nel suo suggestivo stand a forma di yurta (la tradizionale tenda mongola) dove basta toccare delle lastre per vedere il clima esterno modificarsi, mostra come funzionano le lampadine al grafene: costano poco e possono durare sino a otto anni. L’ Uzbekistan presenta il prototipo di una bio-automobile ad energia solare. La Germania racconta come si è liberata dal carbone grazie all’innovazione tecnologica e agli investimenti in fonti energetiche rinnovabili. La Spagna punta a potenziare la capacità di accumulo energetico dei pannelli solari. I francesi vendono come loro (in realtà si tratta di un progetto internazionale a trazione europea) la costruzione ad Aix-en-Provence di un reattore per la fusione nucleare di tipo sperimentale.
E il padiglione italiano (progettato dall’architetto Paolo Desideri)? Siamo, anche ad Astana, i soliti: inarrivabili sul piano dell’eleganza e della forma, sofisticati sul piano concettuale, estrosi e pieni di belle intuizioni, ma anche un tantino inconcludenti, poco pratici e con lo sguardo sempre rivolto al passato. Con i pochi soldi stanziati dal governo (tre milioni di euro, la Gran Bretagna per capirci ne ha spesi sette) e le tante pastoie della nostra burocrazia in materia di appalti, partiti puntualmente in ritardo, il Commissario Stefano Ravagnan (che è anche l’Ambasciatore d’Italia in Kazakistan) e il suo vice-commissario Salvatore Parano (attivissimo responsabile dell’Ice nel Paese, del quale siamo dopo la Russia il principale partner commerciale) in realtà hanno fatto un mezzo miracolo organizzativo. Non si comprende bene, passando da una sala all’altra, quale sia la politica energetica che l’Italia intende perseguire nel futuro, ma si capisce che qualcosa c’inventeremo grazie al nostro secolare ingegno. D’altro canto all’estero ci ammirano per questo: con niente, solo con la fantasia, facciamo cose grandi e belle.
Nel nostro spazio ci sono le piazze suggestivamente intestate a Leonardo, Volta, Fermi e Pacinotti. C’è un filmato sulla storia dell’Eni, che da queste parti è una vera potenza e che per la settimana conclusiva dell’Expo porterà ad Astana a sue spese l’orchestra della Scala. Ci sono foto e animazioni sulle bellezze storico-paesaggistiche della Penisola (ma vallo a spiegare ai kazaki dove si trova Civita di Bagnoregio). Nei giorni del nostro viaggio c’era, organizzata dal gallerista Arminio Sciolli, la performance dell’artista milanese Ottavio Mangiarini. E poi ci sono, immancabili, le Regioni, quindici delle quali hanno organizzato ad Astana la loro solita missione promozionale a base di prodotti tipici: nostra eterna maledizione quella di non riuscire a presentarci all’estero come una nazione che pensa e decide con una testa sola e che si muove in una direzione unica. “Il Friuli sbarca in Kazakistan” ci è capitato di leggere nel preparare quest’articolo. Ecco, quando facciamo così mostriamo il nostro lato ridicolo.
* Reportage apparso su “Il Messaggero” e il “Mattino” del 28 agosto 2017.
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