di Fabio Massimo Nicosia

Ebbene lo confesso, sono un fan di Niki Vendola. Mi piace il suo carisma, come ostenta l’orecchino, mi piace la sua retorica evocativa, condita di zeppola, mi piace il suo non avere un programma di governo, mi piace il suo taglio alla Polentina. Come diceva Gianni Brera di Furino, possente mediano della Juventus degli anni ‘70, “se solo sapesse giocare al pallone…”.

E così Vendola, se avesse idee chiare su quello che lui chiama “liberismo” mi piacerebbe anche di più. L’unico problema che abbiamo con Vendola infatti è che egli alimenta l’incultura nazionale sul tema. Forse che Vendola è favorevole a dazi e a protezionismi di varia natura? Spero di no. E allora perché continua a prendersela con il “liberismo selvaggio”, quando noi si vive da almeno 80 anni in pieno keynesismo?

Vendola alimenta l’incultura dei giovani che hanno fiducia in lui, additando come “liberista”, qualsiasi “privato” si affacci alla porta. Se noi avessimo un Parlamento s.p.a. e un Governo s.r.l., Vendola griderebbe al golpe liberista, senza capire che si ha liberismo solo se si ha concorrenza, il resto sono monopoli travestiti da privati, solo perché hanno attaccato l’acronimo s.p.a. in coda.

E’ banale ribadire che il “capitalismo” che conosciamo  ha ben poco a che fare con il modello del mercato imperturbato, e che oggi, il “selvaggio” è tutt’altro che un liberismo sano. Si tratta infatti di un fenomeno in gran parte fiorito all’ombra dello Stato o degli organismi internazionali superstatuali, alla cui incessante azione si devono gran parte degli arricchimenti e degli impoverimenti conosciuti nella modernità, così come si deve alla decisione “pubblica” dello Stato l’assegnazione preliminare dei diritti di proprietà.

La dottrina economica che presiede a tale fenomeno non è quella cosiddetta liberista, ma all’opposto quella keynesiana, fondata sull’attiva e decisiva iniziativa statale, in una sorta di “neo-mercantilismo” di guerra, che non ha nulla a che vedere col mercato correttamente inteso, considerando che le devastazioni sono altrettante occasioni di ricostruzioni, e quindi di appalti di opere pubbliche di immani proporzioni e di dimensione transnazionale, secondo la logica  del “Monello” di Charlot: prima devasto e poi ricostruisco.

Sulla base di tali elementi, è il caso di riflettere ancora sulle forme che lo Stato viene assumendo nella contemporaneità, del suo procedere per “privatizzazioni” fittizie, o meglio, che tali sono, ma al di fuori di un sistema di mercato; privatizzazioni, il cui scopo è solo quello di distribuire il potere e sottrarre le relative operazioni al controllo (parlando degli U.S.A.) del Congresso e in genere alle verifiche di legittimità; sicché persino le multinazionali appaiono oggi, non espressione di “liberismo”, come credono i critici di sinistra più ingenui, ma articolazioni transnazionali e formalmente privatistiche, e quindi (ecco il trucco) “libere”, della nuova forma-Stato e della sua azione di rapina e spoliazione. Il punto cruciale è che la depredazione viene favorita dalla forma privatistica, per mistificatorie  ragioni di diritto positivo. Sicchè viene consentito allo “pseudo-privato” ciò che a un’istituzione pubblica, almeno in parte imbrigliata dal principio di legalità proprio dello Stato di diritto, non verrebbe consentito. Anche se occorre riconoscere che talora dottrina e giurisprudenza hanno cercato di porre un freno a tale funesta deriva, sia pure tra contraddizioni, conseguenti all’idiosincrasia anglosassone per la scienza del diritto amministrativo, della quale Albert Dicey costituisce la più nota espressione.

Se, in un contesto di monopolio nella produzione giuridica, l’atto del potere pubblico viene ricostruito, come sempre più spesso si tende a prospettare, nei termini dell’atto di diritto privato, ci troviamo innanzi a una grave mistificazione, data l’assenza totale di concorrenza nel quadro in cui viene adottato. Lungi dal rappresentare un passaggio dal monopolio, proprio del diritto pubblico, al sistema del mercato, saremmo di fronte a una regressione verso lo Stato patrimoniale, con perdita secca delle garanzie che il diritto pubblico classico impone all’attività del pubblico potere.

Il problema dei fautori delle garanzie del costituzionalismo liberale non è allora, come sembra si sia destinati a fare, introdurre il diritto privato nell’attività dello Stato (altra cosa sarebbe assoggettare lo Stato ai principi civilistici), ma, semmai, esattamente all’opposto, introdurre il diritto pubblico nell’attività dei monopoli e oligopoli privati che quello Stato stanno progressivamente sostituendo, in nome di un “anarco-capitalismo” del tutto malinteso.

Chiediamoci invece che cosa accadrebbe se il monopolio di diritto, di diritto pubblico, fosse sostituito da un monopolio di diritto, ma di diritto privato. I suoi momenti coercitivi sarebbero liberi da impacci, ma verrebbe meno ogni legittimazione a quel monopolio, se è vero che, come riconosce lo stesso Nozick, solo la superiore qualità delle sue procedure potrebbe giustificare il monopolio stesso.

Alla luce di quanto sopra, come definire più tecnicamente questo fenomeno”? E’ il caso di riprendere, anche con intento satirico, lo spunto di Hannah Arendt, che ci ricorda come, per gli antichi greci, “una vita spesa nell’esperienza privata di ‘ciò che è proprio’ (idion), fuori dal mondo comune, è ‘idiota’ per definizione”. Sicché possiamo noi ora parlare  di “idiocrazia”, per contrassegnare questo sistema di “privati”, che ambiscono a farsi “potere pubblico”, avvolgendo lo Stato fino a poterne fare a meno manipolando l’ideologia anarco-capitalista, ereditandone lo scettro con la menzogna.