di Alessandro Campi
Luigi Di Maio, dimessosi ieri dalla guida del M5S, non è stato un leader populista: come Peron, Berlusconi, Trump o Grillo. E’ stato un leader nell’era del populismo. Oltre il gioco di parole, fa una grande differenza.
I primi – prodotto tipicamente novecentesco con interessanti propaggini e varianti contemporanee – sono innanzitutto i fondatori di qualcosa: un movimento collettivo, una storia comune, una tradizione, un linguaggio, una mitopoiesi, un abbaglio ideologico. Sono per definizione affabulatori, visionari e innovatori, personalità magnetiche e istrioniche, spesso vagamente paranoiche, demagoghi della più bella acqua, manipolatori, trasformisti capaci d’indossare molti abiti e molte identità, talmente coriacei e caparbi da resistere spesso a qualunque rovescio.
Combattenti nati, si esaltano nella l0tta. Credibili per ciò che hanno già fatto nella loro vita precedente (quello un generale, quell’altro un imprenditore di successo, quell’altro ancora un comico o attore famoso), quando irrompono da protagonisti nell’agone politico ne stravolgono le regole. Proprio per questo sono potenzialmente pericolosi, ma non stiamo qui a fare i moralisti.
I secondi, un fenomeno tipico dei giorni nostri, così segnati dalla virtualità, dall’effimero mediatico e dalla voracità dei consumi (anche nella sfera politica), sono appunto un’altra cosa. Vanno e vengono con una straordinaria velocità: oggi sugli altari, domani nella polvere. Le loro fortune, spesso frutto di circostanze straordinarie, non dipendono da particolari qualità personali e sono più legate all’apparenza che all’essere: dal momento che sembrano vivere di comunicazione e messaggi istantanei, soccombono quando hanno esaurito il repertorio o raggiunto il livello della massima saturazione in pubblico. Non hanno nessuna storia straordinaria alle spalle, ma una passabile mediocrità: quella che serve per alimentare l’illusione consolatoria che colui che comanda e colui che è comandato stanno sullo stesso piano e sono in fondo figure reversibili.
Più che trascinare le masse, costoro ne sono trascinati: non sono leader alla maniera tradizionale, capaci di indicare al prossimo una direzione di marcia (foss’anche quella che porta verso il baratro come nel caso del pifferraio di Hamelin), ma follower, che seguono l’opinione dominante per meglio sfruttarla politicamente. Fiutano gli umori collettivi e ad essi adattano il loro pensiero, peraltro sempre cangiante: oggi si dice una cosa, domani un’altra, tanto tutto si dimentica nell’epoca in cui le parole non sono più pietre ma acqua fresca.
Ed è appunto il caso di Luigi Di Maio – leader per caso e per una breve stagione, finita ieri. Scelto dall’alto, grazie ad un accordo con Casaleggio figlio sancito dalla nascita della piattaforma Rousseau, per un ruolo – quello di capo politico – che in altri tempi si sarebbe dovuto conquistare mordendo e battagliando, avendo forze proprie. Un capo dal piglio notarile e composto, sin dall’abbigliamento monotono: nessun mimetismo o travestimento, che è un altro dei caratteri tipici del vero leader populista. E nessun tratto fisico o vezzo comportamentale che possa dare il segno di una qualche eccentricità e irrequietezza. Tutto ordinario, nonostante la pretesa verbale di rivoltare il sistema.
E infatti è finita senza grande gloria, con dimissioni anch’esse ordinarie, ormai largamente attese (anche se non con questa tempistica). E come nella vecchissima politica e nei vecchi partiti, causate da giochi correntizi, dai tradimenti dei fedelissimi e da un logoramento psicologico non più sopportabile dal diretto interessato (laddove i leader populisti veri hanno sempre mostrato ben altra tenuta fisica).
Ma questi sono stralci di teoria della leadership nel suo rapporto necessario con la politica e la democrazia. C’è poi la pratica, nel nostro caso le ragioni tattico-prosaiche, e comunque politicamente non irrilevanti, che hanno spinto Di Maio a questa scelta, peraltro in un momento delicato come la vigilia d’un voto che potrebbe essere decisivo per le sorti del governo. La più banale è che due incarichi oggettivamente grandi – capo e ministro – non erano più cumulabili, a meno di far male entrambe le cose.
Ha poi agito il comprensibile desiderio, dopo molte sconfitte, di non intestarsene un’altra che in Emilia-Romagna s’annuncia rovinosa. Perché mettere la testa sul ceppo a vantaggio dei suoi nemici interni, lui che in questa partita amministrativa, fiutata per tempo la cattiva aria, aveva suggerito di non presentare candidati?
Ma detta così sembra davvero il generale che lascia il campo prima della sconfitta. In realtà hanno contatto diversi altri fattori, meno effimeri. Innanzitutto la necessità di un gesto sacrificale che dovrebbe togliere alibi o argomenti ai suoi contestatori non sempre in buona fede. Con il M5S che perde pezzi ogni giorno, senza Di Maio si arresterà l’emorragia? In caso contrario, sarà chiaro che non è questione di uomini al vertice (inadeguati), ma di progetto politico (fattosi evanescente e contraddittorio).
C’è poi una questione di strategia politica. Del M5S s’è sempre detto che era di tutto un po’: la destra, la sinistra e il centro nello stesso contenitore, tenute insieme dal risentimento sociale e dalla voglia di sfasciare il sistema. Ma questo valeva nella fase della protesta e dell’opposizione dura e pura, quando si stava solo nelle piazze. Poi sono venuti i trionfi elettorali e la prova del governo, cioè l’ora della responsabilità e delle scelte oltre la demagogia. E alle fisiologiche divaricazioni personali, imputabili alle ambizioni dei singoli, si sono sommate quelle politiche, frutto di visioni sempre più inconciliabili all’interno di un Movimento con troppe teste al comando.
Da un lato, la speranza-scommessa di Di Maio che il M5S, pur stabilizzandosi al ribasso nei consensi dopo l’exploit del 2018, debba provare ad essere il Terzo che gode tra destra e sinistra, ovvero il perno del nuovo sistema dei partiti: forza centrale (dunque non centrista) ma pur sempre radicale e orientata al cambiamento. Il Di Maio moderato e governista, disposto al compromesso coi poteri forti, di cui talvolta s’è parlato in realtà non è mai esistito, essendo la sua vera natura un’altra: da jacquerie piccolo-borghese, da sovversivo in giacca e cravatta. Dall’altro, il progetto di Grillo finalizzato a fagocitare la sinistra democratica attraverso un’alleanza organica con essa, anche se il rischio attuale – numeri alla mano – è che accada il contrario. Lo scontro era inevitabile e Di Maio, capo per delega, ha perso contro il capo naturale di quel mondo.
A questo si lega la preferenza per Salvini che Di Maio ha sempre coltivato, al di là degli inevitabili screzi personali seguiti alla fine del governo giallo-verde. Tra i due c’è sempre stata una comunanza generazionale, antropologia e politica – da outsider uniti nella lotta contro la vecchia classe politica. Il sovranismo per chi lo combatte è una brutta parola, per chi ci crede – come appunto Di Maio e Salvini – è la dottrina del futuro: quella che nel globalismo economico e nella governance transnazionale vede una macchina tecno-burocratica finalizzata ad accrescere il potere delle oligarchie a danno delle collettività e dei popoli. Dato un simile punto di partenza ideologico, condiviso dal suo antico sodale Di Battista, si capisce come per lui sia sempre risultato ostico l’abbraccio al governo con la sinistra del Pd.
E dunque che accadrà ora? Diventerà Di Maio il capo della destra grillina contro lo stesso Grillo? C’è chi dice che potrebbe persino farsi un suo partito – una specie di lega del Sud. O riproporrà se stesso in occasione dei prossimi Stati Generale del movimento, quando magari si sarà scoperto che senza di lui e con una guida collegiale le cose rischiano di andare ancora peggio? Tutte cose che per riuscire richiedono qualità da leader vero, quelle che sinora, per quant0 l’uomo sia un abile tattico, non ha mai mostrato di possedere.
*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 23 gennaio 2020.
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