di Maurizio Griffo
Prima della infausta crisi del Covid 19 (una crisi che si può tranquillamente ascrivere alla irresponsabilità del governo cinese), uno degli argomenti più discussi era quello della Brexit, cioè della scelta della Gran Bretagna di lasciare l’Unione europea dopo quasi cinquanta anni di affiliazione. Adesso che la fase più pesante della crisi epidemica è passata, si può tornare a riflettere sulla Brexit cercando di ricavarne qualche indicazione utile in prospettiva.
Nel dibattito italiano, rispetto alla Brexit, si sono delineati, grosso modo, due partiti. Da un lato coloro che vedono nella scelta britannica un segnale inequivocabile della crisi della Unione europea e, al tempo stesso, una indicazione politica da seguire. Dall’altro lato i critici della decisione che hanno deplorato la scelta britannica e hanno a lungo sperato nella convocazione di un nuovo referendum. Si tratta di letture legate alla contingenza politica e influenzate dal contesto italiano, tuttavia credo che il maggior motivo di interesse di tutta la vicenda sia un altro, e riguardi i caratteri della politica ai nostri tempi. Per intenderlo, però, è necessario riassumere brevemente i fatti che hanno portato al voto sulla Brexit.
Nel 2013 raccogliendo una sollecitazione proveniente dal suo partito, e anche per timore di una perdita di consensi a favore del Partito per l’indipendenza del Regno Unito (l’UPIK di Farage), Cameron dichiarava che, in caso di un successo del partito conservatore alle elezioni del 2015, avrebbe teuto un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’unione europea. Dopo la vittoria elettorale del 2015 la promessa non cadeva nel dimenticatoio ma restava nell’agenda politica. Confortato dai sondaggi che a fine 2015 assegnavano un largo margine al remain e per dare più peso alle trattavie in corso con Bruxelles per modificare le clausole di partecipazione britannica alla Ue, Cameron convocava il referendum per il 23 giugno 2016. Sappiamo tutti come è andata a finire.
Da questa vicenda si possono ricavare tre insegnamenti. In primo luogo, il referendum entra nell’agenda politica per ragioni interne al partito conservatore e Cameron lo usa nella convinzione che avrebbe rafforzato la sua leadership. Questo è un primo elemento di criticità: le grandi scelte politiche non dovrebbero essere motivate da calcoli contingenti. Un precetto certo difficile da seguire, ma che dovrebbe essere un ideale regolativo per chi fa politica.
In secondo luogo, il risultato del voto del gugno 2016 mostra come i sondaggi non sempre forniscano indicazioni affidabili e questo per due ragioni. In primo luogo le indagini demoscopiche risultano meno attendibili quando investono questioni che contravvengono l’orientamento dell’establishment o delle élite; in simili casi l’elettore tende a non dire quello che pensa, ma piuttosto a uniformarsi a quella che ritiene la opinione dominante, considerata legittimata e perciò presentabile. Inoltre, la volatilità elettorale è aumentata di molto e in pochi mesi si possono avere variazioni assai ampie; variazioni che, anche solo alcuni lustri addietro, erano impensabili. In sostanza, basare le proprie scelte sui sondaggi non è oggi sempre consigliabile, perché la loro capacità di supporto alle decisioni politiche risulta fortemente ridotta.
Infine, e non è l’aspetto meno importante, sta quello che possiamo definire il problema delle qualità che deve possedere un leader. Nella riflessione politica classica la virtù precipua dell’uomo politico è la prudenza, cioè la capacità di fare scelte oculate che non mettano a repentaglio la salute della repubblica o, per usare una terminologia più attuale, gli equilibri del sistema. Un politico prudente tende a evitare i pericoli, non li sollecita. Considerando la forte irrequietezza degli elettorati, la tradizionale diffidenza verso la costruzione europea di una parte dell’elettorato britannico, le paure che l’immigrazione incontrollata suscita nelle opinioni pubbliche, la scelta del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Europa comunitaria è stata una scelta avventata, alla lettera imprudente. Una scelta che Cameron ha pagato con la fine della propria carriera, ma che, soprattutto, ha lasciato alla Gran Bretagna e all’Ue un problema non da poco.
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