di Andrea Colasuonno
Risale al 2008 l’ultima proposta di paternariato euromediterraneo, anch’essa naufragata, per molti fortunatamente, dopodiché più nulla. Fu lanciata dall’allora presidente francese Sarkozy, denominata “Unione per il Mediterraneo” (UpM), e pensata per far progredire il processo di avvicinamento fra sponda Nord e sponda Sud del Mare Nostrum iniziato nel 1995 con il “Processo di Barcellona”.
Questo fu lo strumento attraverso il quale l’Unione Europea pensò di trattare con i vicini magrebini, mediorientali e balcanici così da conseguire obiettivi politici, garantendo sicurezza e stabilità; economici, istituendo una zona di libero scambio; infine culturali, promuovendo i diritti civili. Fu un approccio che fece sperare tanti, promettendo una politica verso i Paesi Terzi del Mediterraneo non più affetta da tendenze coloniali ma orientata ad una leale cooperazione.
Il “Processo” nel corso di quasi 20 anni ha visto alternarsi periodi di entusiasmo (pochi e brevi) ad altri di stagnazione, ha cambiato natura e strategia diverse volte (da “Processo di Barcellona” nel 1995 a “Politica europea di vicinato” nel 2004, a “Unione per il Mediterraneo” nel 2008), ha visto ridurre progressivamente i fondi a sua disposizione, ha assistito infine al fallimento dei suoi propositi. Le ragioni strutturali del mancato successo, al di là di quelle geopolitiche, sono state la disparità di potere contrattuale fra un’UE ricca e compatta da una parte, e singole nazioni, nel migliore dei casi, in via di sviluppo dall’altra; il fatto che si sia proceduti puntando per prima cosa, come fu per l’Europa, sulla creazione della zona di libero scambio, rendendo dunque sospettosi gli arabi; l’essere state operazioni per lo più istituzionali nelle quali si è faticato a coinvolgere la società civile.
Il Mediterraneo tuttavia, in attesa che si decidesse l’assetto amministrativo da dargli, ha continuato a fare quello che fa da millenni, ciò che meglio gli riesce: mischiare, corrompere l’integralismo culturale e politico delle sue rive, l’una con l’altra. E allora, paternariato o meno, dal 2010 in poi ci sono state le primavere arabe, la sponda Sud del bacino ha subìto epocali rivolgimenti, le ondate migratorie sono riprese potenti e l’Europa impaurita e dimentica dei buoni propositi di vent’anni prima, si è chiusa, trasformando il mare meticcio per eccellenza in un fossato armato e invalicabile.
Al centro di tutto ciò si è trovata Lampedusa, isola italiana ma situata più a sud di Tunisi e Algeri, un tempo punto chiave delle rotte di fenici, greci, romani e arabi ed oggi “porta d’Europa”. Qui, vista la sua vicinanza all’Africa, dal 2002 al 2013 si sono avuti quasi 200 mila sbarchi di migranti e, purtroppo, i naufragi più agghiaccianti. Certamente lo è stato quello del 3 ottobre scorso, che ha causato più di 300 vittime e ha avuto un grande impatto sull’opinione pubblica. In quell’occasione si è visto quanto fossero ingiuste e infelici le politiche europee e italiane in fatto di immigrazione e proprio per provare a cambiarle è nata l’idea della “Carta di Lampedusa”.
“Non è una proposta di legge o una dichiarazione degli Stati e dei Governi, ma il risultato di un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso”, spiegano i promotori dell’iniziativa, una sorta di “manifesto del migrante” in cui racchiudere i principi chiave a cui qualunque politica migratoria dovrebbe guardare per ritenersi legittima. Alla stesura definitiva della “Carta” si è giunti fra il 31 gennaio e 3 febbraio, quando associazioni, movimenti, reti e organizzazioni si sono incontrate sull’isola simbolo della questione migratoria per discutere e dare una linea di risoluzione alla problematica in tutte le sue sfaccettature: dagli arrivi, alla prima accoglienza (CIE, CARA, CPSA), all’integrazione, allo ius soli.
La “Carta” dunque adesso c’è, ed è definitiva, e a leggerla bene potrebbe essere un documento valido per tematiche più ampie rispetto a quella precipua per cui è stato pensato. Essa parte affermando diritti fondamentali quali la libertà di movimento, di scelta, di realizzare il proprio progetto di vita, che potrebbero fungere da pilastri fondanti sui quali riavviare la discussione euromediterranea dandole un’impronta solidaristica più che neo-coloniale, come è parso negli ultimi anni con l’Upm.
Del resto è un atto, quello di Lampedusa, che elimina le tare genetiche accennate sopra, responsabili da sempre del fallimento di qualunque politica euromediterranea. Sull’isola si è scritto un documento grazie al lavoro e all’interessamento esclusivo della società civile sia della sponda nord che di quella sud del bacino, le istituzioni ne sono rimaste fuori; non accenna a questioni economiche, ad aree di libero scambio, ma è tutta concentrata su diritti e dignità umana; non tiene alcun conto dei rapporti di forza propri della geopolitica, ma è costruita a misura dell’individuo.
Viste queste fattezze, “La Carta di Lampedusa”, potrebbe rassicurare gli arabi, da sempre preoccupati e guardinghi verso un Occidente famelico, e costituire la base di discussione per un rilancio dello stagnante processo euromediterraneo. Si potrebbe pensare alla “Carta” come a una proto-costituzione per la macro-regione euromediterranea che verrà. Del resto di sangue versato affinché si arrivasse ad essa ce n’è stato fin troppo, come per tutte le costituzioni che si rispettino.
Moro diceva che “nessuno è chiamato a scegliere fra l’essere in Europa ed essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo”, se dunque questa è l’ineluttabilità del nostro destino, e Lampedusa, la sua storia e le sue vicende lo dimostrano, la nuova “Carta” sembra il modo più onesto e coraggioso di affrontarlo.
Commento (1)
Federico
Ben detto. La Carta sarà presentata a Bruxelles?