di Alessandro Campi
Eccola dunque la legge elettorale auto applicativa decisa dalla Consulta e che pezzi importanti del mondo politico italiano invocavano con l’idea (meglio, la speranza) di non doversi assumere la responsabilità in Parlamento di farne una diversa da quella eventualmente bocciata ed emendata dai giudici.
Ma si può davvero utilizzare, con beneficio reale per la collettività, un sistema di voto come quello uscito ieri dalla decisione della Corte Costituzionale, che rappresenta – letta politicamente – certo un apparente via libera all’ipotesi di elezioni anticipate, ma anche (forse soprattutto) un colpo ulteriore assestato al disegno innovatore perseguito da Renzi?
Chi vuole il voto subito – diciamo entro il prossimo giugno, dallo stesso Renzi a Grillo e Salvini – risponde di sì senza remore. L’argomento è che dall’Italicum è stato cassato il ballottaggio tra le due liste con più voti al primo turno (meccanismo che ben si addiceva ad un sistema monocamerale, ma inadatto al bicameralismo che gli italiani hanno voluto conservare col voto al referendum dello scorso 4 dicembre), ma lasciando il premio di maggioranza al partito che dovesse raccogliere almeno il 40% dei consensi.
Col primo meccanismo, espunto, una minoranza avrebbe potuto ottenere un numero di saggi esorbitante rispetto alla sua effettiva forza elettorale, distorcendo così la volontà popolare. Col secondo, mantenuto, non si trasformerebbe, in modo artificiale, una minoranza numerica in maggioranza politica, ma si darebbe al partito che già gode di un vasto seguito nel Paese, appunto superiore al 40%, la possibilità di rafforzarsi all’interno del Parlamento – grazie ai seggi assegnatigli in premio – in modo da dare vita ad un esecutivo a sua volta stabile e durevole. E dunque, fatta questa necessaria correzione alla legge che ne salva l’impianto maggioritario, si vada alle urne con quello che dopo il Mattarellum, il Porcellum e l’Italicum già si è indicato come il Consultellum: ennesimo maccheronico latineggiante che sta lì ad indicare come in Italia il linguaggio della politica sia ormai retrocesso al livello di quello dell’antica goliardia universitaria.
Ma la geografia politica attuale ci consegna, come tutti ben sanno ma come i fautori del voto immediato sembrano irresponsabilmente trascurare, un Paese politicamente diviso in tre e in via di crescente frammentazione: tre blocchi, pressoché equivalenti dal punto di vista dei consensi potenziali e comunque lontani dalla soglia del 40%, e formazioni minori di contorno la cui aggregazione questa legge (sebbene permanga la soglia di sbarramento del 3%) certamente favorirà.
Se si votasse col sistema che la Consulta ha confezionato – un proporzionale de facto con un premio formale di maggioranza che nessuno prevedibilmente otterrà – ne verrebbe fuori un Parlamento a sua volta frazionato, diviso e privo di una maggioranza netta (sempre che non risultino due maggioranze diverse tra Camera e Senato vista la difformità al momento esistente tra i rispettivi sistemi di voto). Non sarebbe il caos o l’ingovernabilità, ma certamente il ritorno alle contrattazioni e agli accordi post-voto, dopo che per due decenni abbiamo predicato l’importanza delle alleanze e delle coalizioni pre-elettorali basate su programmi comuni. Non solo, ma il rischio concreto è che gli accordi e le contrattazioni fatti a urne chiuse, quando si tratterà di formare un governo quale che sia, viste le forze in campo alla fine producano ircocervi politico-parlamentari quali la Grande Coalizione Moderata tra Pd e Forza Italia o la Grande Alleanza Populista tra Grillo e Salvini.
Oltre al ballottaggio è stato ritenuto incostituzionale anche il meccanismo delle pluricandidature, che avrebbe consentito al capolista eletto in più collegi di scegliere a sua discrezione quello da rappresentare. Ma è una bocciatura parziale. Le pluricandidature nella sostanza rimangono con la differenza, rispetto a quanto previsto dall’Italicum originario, che la scelta del collegio nel quale si risulterà eletti verrà affidata ad un sorteggio. Per i cittadini non è una gran consolazione. Anche perché non è stato toccato il sistema dei capilista bloccati, che conti alla mano significa semplicemente che il prossimo Parlamento sarà composto da nominati dai diversi capi di partito.
La mancanza di preferenze (e dunque lo scarso potere di scelta concesso agli elettori, ai quali sempre bisognerebbe pensare quando si mette a punto un sistema di voto) era una delle ragioni che aveva portato la Corte Costituzionale a smantellare il Porcellum. Cosa è cambiato, sul piano del giudizio tecnico-politico, rispetto all’Italicum? Se si ritiene che una legge elettorale debba servire, tra le altre cose, anche a selezionare un ceto politico che sia competente, autorevole e non autoreferenziale, la sentenza di ieri – se presa come immediatamente applicabile –non va assolutamente in questa direzione. Essa infatti ci consegna una legge (certo gradita alle oligarchie di partito) che favorisce le designazioni dall’alto e la cooptazione dei parlamentari secondo criteri che facilmente si possono intuire: la fedeltà, il conformismo, l’obbedienza e lo spirito gregario. Niente dunque che abbia a che vedere con la competenza, l’autonomia di giudizio e la capacità d’iniziativa politica.
Se ne deve concludere che, per quanto difficile, una soluzione politica innovativa, in materia di legge elettorale, i partiti da domani dovranno cercarla all’interno del Parlamento, prendendosi tutto il tempo che sarà necessario. Anche per non dare l’impressione, che contribuirebbe a legittimarli più di quanto già non siano, che per decidere come votare in una grande democrazia, quale resta pur sempre quella italiana, si sia dovuti ricorrere a due sentenze dei giudici costituzionali. Che ci hanno regalato due leggi – una per il Senato e una ora per la Camera – che sono pienamente vigenti sul piano formale (e dunque s’è scongiurato il pericolo di un assurdo vuoto normativo su una materia tanto delicata), ma che in ogni caso andranno necessariamente armonizzate: negli aspetti più tecnici (ad esempio la definizione dei collegi) ma anche nei loro criteri in senso lato ispiratori, che al momento appaiono a dir poco contraddittori (la prima esclude infatti il premio di maggioranza e prevede le coalizioni, la seconda contiene il premio ma non contempla le coalizioni).
Non c’è dunque un bel nulla di immediatamente applicabile. C’è semmai da applicarsi, questo sì, nel lavoro di mediazione parlamentare per dotarsi – sulla base dei paletti costituzionali fissati dalla Corte – di una nuova legge elettorale che per quanto possibile possa garantire queste tre cose (in quest’ordine): il potere di scelta dei cittadini, la qualità del ceto parlamentare, la stabilità dell’esecutivo al quale quest’ultimo dovrà concedere la propria fiducia. Esattamente quel che le due leggi attualmente in vigore non garantiscono.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 26 gennaio 2016.
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