di Alessandro Campi
Non dev’essere stata facile la decisione che ha portato alla chiusura sino al 15 marzo di scuole e università (e di ogni altra attività culturale in luoghi pubblici). Decisione voluta, a quanto pare, più dal governo che dai tecnici ed esperti che lo stanno supportando in questa difficile emergenza sanitaria e non convinti sino in fondo (almeno alcuni di loro) della bontà di un provvedimento così drastico.
Sembra prevalsa la preoccupazione che, se il contagio dovesse allargarsi in modo esponenziale come alcuni paventano, andrebbe al collasso il sistema ospedaliero nazionale, già pesantemente sotto pressione. Inutile dirlo, si pensa soprattutto a quello che potrebbe accadere nel Mezzogiorno d’Italia.
Sospendere lezioni e attività didattiche ad ogni livello è una misura estrema che comporta costi evidenti. Sul piano sociale, innanzitutto. In particolare per tutte quelle famiglie costrette, oggi per domani, a riorganizzare il loro tempo e le loro attività quotidiane. E alle quali si spera possano essere concessi al più presto sostegni e agevolazioni: specie se, come già si dice, il blocco delle attività educative dovesse essere protratto.
C’è poi il costo, soprattutto per gli studenti, che deriva dalla contrazione e rimodulazione dei programmi. Quando e come colmare il gap di conoscenze che fatalmente potrebbe accumularsi? Cui si aggiunge un clima di allarme generalizzato che, soprattutto nei più giovani, non favorisce certo la concentrazione o l’impegno rivolto allo studio. Ma su questo non vale la pena drammatizzare troppo, specie se si riuscirà a mettere a punto in brevissimo tempo, e su vasta scala, sistemi didattici alternativi alle lezioni frontali nelle classi e al lavoro nelle aule. Il pedagogismo da supermercato, che ti spiega quanto sia importante per l’apprendimento lo scambio diretto tra docente e allievo, in questo momento lascia il tempo che trova. Utilizziamo computer, tablet e smartphone per fare ogni cosa: bene, impieghiamoli anche per insegnare e studiare (sapendo che questa situazione non durerà a lungo).
Ma in questa misura c’è soprattutto un rischio: che si riveli oltre che socialmente costosa e fonte di alcuni obiettivi disagi, del tutto inutile se non ci si adeguerà in massa alla ratio che la sostiene: ridurre al minimo i c0ntatti sociali per contenere l’espansione dei virus ed evitare lo scoppio di nuovi focolai. Il che significa, sul filo del buon senso, che se non si va a scuola è bene restarsene per quanto possibile a casa. Accettando, si spera per poco, di cambiare abitudini e ritmi di vita e di impiegare il proprio tempo libero in modo diverso dal solito (non recarsi a scuola al mattino per poi ritrovarsi nei centri commerciali al pomeriggio non sarebbe una grande idea).
È tutto in effetti molto strano, visto che un blocco così generalizzato non s’era mai prodotto in Italia, nemmeno in tempo di guerra. Si comprende dunque quel misto di angoscia e sconcerto che si è impadronito di milioni di persone, accresciuto da una gestione politica della crisi che non sempre è stata tempestiva nelle decisioni e cristallina nella loro comunicazione. Ma accresciuto anche dalle opinioni non sempre convergenti che gli stessi tecnici o scienziati hanno dato di ciò che sta accadendo: segno che si tratta d’uno scenario inedito non solo per chi governa, ma anche per studiosi e ricercatori.
Ma presi certi provvedimenti, s’immagina dopo adeguata ponderazione e per la tutela dell’interesse generale, sarebbe davvero grave perdersi in polemiche, pensare che si tratti di provvedimenti di facciata o continuare a fare di testa propria. Mai come in questo momento si è chiamati ad una prova collettiva di civismo (il cinismo riserviamolo ai messaggi che circolano in rete non ai comportamenti privati e pubblici). Così come per i giovani delle diverse età coinvolti nella chiusura di scuole e università questa dovrebbe risultare una prova di maturità (sul piano del carattere) e un’occasione di crescita nel proprio ruolo di cittadini: la vita non è tutta rosa e fiori e accanto ai diritti ci sono anche i doveri. A tutti, in questo momento, si stanno chiedendo dei piccoli sacrifici nel segno della responsabilità. Se l’allarmismo è deleterio, la sottovalutazione dei rischi lo è altrettanto. Quello che si chiede è la serietà: nelle scelte e nelle azioni.
Certo, quegli italiani che, per ragioni d’età, sono stati testimoni diretti degli anni della guerra probabilmente se la ridono: avendo vissuto per anni una catastrofe vera, quest’ultima congiuntura faticano a considerarla tale. Ancora di più sono quelli che ricordano l‘asiatica che colpì l’Italia alla fine degli anni Sessanta e che produsse migliaia di morti, milioni di allettati e nessun psicodramma collettivo come quello attuale. Circola in questi giorni un filmatino dell’epoca, divenuto come suole dirsi virale (anche se il termine in questo frangente suona particolarmente inopportuno), nel quale lo speaker, col sottofondo d’una musichetta allegra, spiega che ben cinquemila italiani sono “passati a miglior vita” a causa dell’epidemia. Altri tempi, giornalisticamente parlando. E forse anche altri italiani – più avvezzi alle durezze della vita, più fatalisti forse perché allora più credenti, forse più sprovveduti o magari semplicemente più ottimisti. Ma ogni epoca ha le sue paure, le sue fobie e i suoi drammi.
Così come ha gli intellettuali e gli interpreti del tempo storico che si merita. Alcuni filosofi espressioni del radicalismo democratico, rivoluzionari della domenica che hanno imparato a memoria ogni rigo di Michel Foucault, in questi giorni hanno sostenuto che siamo alle prese con un grandioso esperimento di disciplinamento sociale: il Potere ci vuole a casa per controllarci meglio e mentre ci cura amorevolmente in realtà ci sta rendendo suoi prigionieri. A dimostrazione che la capacità d’astrazione è spesso inversamente proporzionale alla conoscenza che si ha del mondo reale.
La verità, come tale più semplice e banale d’ogni macchinosa ipotesi di complotto o d’ogni cervellotica teoria, è che nessuno si è inventato quest’emergenza per affossare la democrazia attraverso la manipolazione politico delle nostre emozioni primordiali. Così come nessuno l’ha prevista in queste proporzioni (noi siamo arrabbiati con i ritardi del governo italiano ma gli altri non è che abbiano fatto di più e di meglio). Chissà perché c’eravamo convinti, per un malinteso senso del progresso, che certe brutture – pandemie incluse – appartenessero solo al passato. Scoppiata l’emergenza e capito finalmente quel che stava accadendo si è corsi ai ripari, tra prove ed inevitabili errori, con i governi che si sono affidati giustamente agli esperti e con questi ultimi che, non avendo una ricetta pronta, stanno cercando sulla base dell’esperienza pregressa, delle ricerche in corso e degli scambi d’informazione su scala globale, d’inventarsene una.
Gli stati d’emergenza – determinati, come in questo caso, dalla natura –per definizione durano poco, purché affrontati e governati razionalmente. Per superarli occorrono governanti capaci quanto basta, non ossessionati dal consenso (disposti dunque, se serve, d’assumere decisioni impopolari) e disposti ad ascoltare chi ne sa più di loro. Ma servono anche cittadini in grado di darsi una disciplina per senso del dovere: nessuno ci sta rubando la libertà. Quanto al modo per superarli emotivamente senza grossi traumi il trucco potrebbe essere quello di viverli, per quanto possibile, con normalità e serenità. È quello che ho detto l’altro ieri, salutandoli, ai miei studenti: le lezioni sono sospese ma noi continueremo a sentirci e a lavorare regolarmente, come se niente fosse, anche se con qualche piccolo e sopportabile disagio reciproco. Lo sappiamo dacché esiste l’umanità: la malattia veramente mortale è la paura che ci portiamo dentro. Sconfitta quella il resto viene da sé e la soluzione si trova sempre.
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