di Angelica Stramazzi
Le sfide che la lunga stagione di recessione economica sta ponendo al mondo intero – e all’Italia nello specifico – sono molteplici. Ciascun Paese coinvolto sta cercando, più o meno autonomamente, di rifondare se stesso, invertendo tendenze che, protrattesi nel tempo, hanno generato – e continuano a generare – meccanismi poco virtuosi in campo economico, sociale, politico ed istituzionale. Nei prossimi anni, saremo in grado di valutare la bontà o meno di tali sforzi, al netto delle discrasie e delle disfunzionalità che, ça va sans dire, rimarranno ben ancorate all’interno di ciascuna nazione. Ma gestire e governare la crisi, controllarne le bizzarrie e i colpi bassi, significa anche – e soprattutto – prospettare soluzioni in grado di adattare le impalcature istituzionali alle esigenze poste dai tempi odierni. In alcuni Stati come la Francia, la sovrastruttura istituzionale sembra funzionare e resistere all’usura temporale, sebbene l’ex premier Jospin, su incarico del Presidente Hollande, abbia proposto una riforma elettorale ed istituzionale per cercare di adattare alla contemporaneità il sistema ideato dal generale De Gaulle. Nel nostro Paese, l’attuale classe politica – non tutta, per la verità – aveva sollevato la necessità di introdurre un sistema semipresidenziale che prevedesse, tra le altre cose, la possibilità per il cittadino/elettore di scegliere direttamente il Presidente della Repubblica. Tuttavia, il ricorso al totem della Carta Costituzionale del 1948 ha generato una situazione di stallo permanente, unitamente all’insabbiamento e all’archiviazione della discussione. «Il nostro primo limite – ha scritto in un editoriale del 7 novembre scorso il direttore del Tempo Mario Sechi – è non aver ridisegnato il sistema istituzionale, chiudere la storia del compromesso tra Dc e Pci per entrare nella contemporaneità».
Mentre la Francia pare dunque ripensare (seppur parzialmente) il fortunato e riuscitissimo sistema istituzionale ed elettorale pensato dal generale De Gaulle, l’Italia tenta disperatamente di sintonizzarsi con le sfide correnti senza però mettere in discussione la sua impalcatura istituzionale. Continuano intanto a proliferare centri di potere, soprattutto a livello locale, e lo spirito riformatore si scontra con resistenze e rendite di posizione dure a morire. Si ignora pertanto un presupposto essenziale per sopravvivere al tempo presente, gettando uno sguardo verso ciò che verrà: ossia il fatto che «con i suoi tratti drammatici, la crisi sta concretamente premendo verso una maturazione della democrazia, che però può essere figlia solo di una stagione di profonda innovazione istituzionale» (Mauro Magatti, “Il populismo si vince con l’innovazione”, Corriere della Sera, 30.10.2012). Un’innovazione che, per essere profonda ed incisiva, dovrà necessariamente passare attraverso una semplificazione del quadro istituzionale e, a livello partitico, mediante la consapevolezza dei leader emergenti di confrontarsi con l’avvio di una stagione post carismatica, in cui la leadership dovrà per forza di cose contemplare – sempre nei limiti del possibile – processi di apertura verso proposte, idee e suggerimenti provenienti non solo dalla base, ma anche dalla restante dirigenza partitica.
Tony Judt, forse il più influente intellettuale americano, nel suo fortunato saggio “Guasto è il mondo”, ha sottolineato la necessità, tra le altre cose, di rifondare il dibattito pubblico: «Abbiamo bisogno – scrive – di nuove leggi, di sistemi elettorali diversi, di restrizioni alle lobby e ai meccanismi di finanziamento dei partiti politici, dobbiamo conferire più (o meno) autorità al ramo esecutivo e dobbiamo trovare dei modi per costringere i funzionari, eletti e non eletti, a prestare attenzione alle esigenze e alle richieste di chi li paga , cioè noi». Ma se questi cambiamenti non si sono verificati «è perché a immaginarli, progettarli e applicarli sono state le stesse persone alla radice del dilemma». L’autore di Postwar cita a questo punto Upton Sinclair: «E’ difficile far capire qualcosa a un uomo quando il suo salario dipende dal non capirla». In questa citazione sta sicuramente la risposta alle mille domande che, ogni giorno e ad ogni livello, vengono poste circa la necessità di comprendere le ragioni del non cambiamento con cui la società italiana è costretta a scontrarsi. Le nostre istituzioni non sono in buona salute: hanno bisogno di essere svecchiate, ammodernate e ripensate da personalità desiderose di un cambiamento (più o meno) radicale sia nel mondo di gestire (e ripensare) la cosa pubblica, sia nelle modalità di confronto con il corpo elettorale.