di Alessandro Campi

untitledL’ultimo commissario straordinario che Roma ha avuto, dal dicembre 1946 al novembre 1947, si chiamava Mario De Cesare ed era un prefetto, già vice-capo della Polizia. All’epoca non c’entravano nulla il malaffare e le infiltrazioni della criminalità organizzata, la corruzione e la cattiva amministrazione, tanto meno le conseguenze della guerra da poco perduta. Quella che colpì il Comune di Roma, causandone lo scioglimento, fu una crisi interamente politica.

Le elezioni amministrative del 10 novembre 1946 avevano fatto registrare la netta affermazione del Blocco del popolo social-comunista (30 seggi su 80), una grande avanzata dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (17 seggi) e la sconfitta della Dc degasperiana (17 consiglieri). Gli altri scranni erano andati ai repubblicani (sei), ai monarchici (5) e ai liberali (4), più un posto alle liste minori. Al Campidoglio non c’era dunque una maggioranza politica omogenea in grado di esprimere Sindaco e Giunta. La Dc, che a livello nazionale governava insieme al Pci e al Psi, non poteva certo legarsi alle destre e ai qualunquisti a livello locale. La Chiesa, che imputava il crollo della Dc alle amministrative proprio all’innaturale collaborazione al governo tra quest’ultima e le sinistre di Togliatti e Nenni, era a sua volta risolutamente contraria a qualunque accordo tra il partito dei cattolici e quelli cosiddetti “anticlericali”, specie in una città-simbolo come Roma. Nell’impossibilità di raggiungere un qualunque accordo tra le diverse forze politiche, non restò dunque che sciogliere il Consiglio comunale e nominare un reggente prefettizio.

Ieri la storia è stata sul punto di ripetersi, anche se per ragioni che hanno a che vedere non con la mancanza di intese tra i partiti o con lo scontro tra ideologie e visione del mondo, ma – secondo il tratto caratterizzante la Seconda Repubblica – con la latitanza della politica e la sua subalternità all’affarismo e ai poteri non legittimati dal voto popolare (a partire da quelli tecnico-amministrativi e giudiziario). Motivi di opportunità e il rischio di esporre l’Italia ad una figuraccia internazionale hanno tuttavia suggerito una soluzione formalmente più morbida rispetto a quella assunta per Roma nell’immediato dopoguerra (ci si è limitati, per così dire, a sciogliere per mafia il X Municipio di Ostia). Ma la sostanza – a detta di molti gli osservatori – appare la stessa del passato: il prefetto Franco Gabrielli sarà, per conto del governo Renzi e del Viminale, il tutore del Sindaco di Roma e colui che d’ora in avanti veglierà, insieme ai funzionari del ministero degli Interni, sul funzionamento della macchina comunale in ogni suo atto. Avrà la gestione diretta dell’evento giubilare (al cui inizio mancano poco più di tre mesi) e poteri d’intervento straordinari sugli ambiti più delicati dell’azione amministrativa: dall’emergenza abitativa all’immigrazione, dall’ambiente all’affidamento di lavori, servizi e forniture.

Ci si chiede ora se questi provvedimenti basteranno a risolvere una crisi durata mesi e resa ancora più profonda dall’enfasi mediatica che l’ha accompagnata e dall’eccessiva lentezza politica con cui è stata gestita. Ma ci si chiede anche se sia vero che – tra sporcizia dilagante, scandali a ripetizione, ruberie, arresti, inchieste della magistratura, disservizi e malversazioni a danno dei cittadini – Roma, ferma restando l’oggettiva difficoltà a gestire una realtà urbana che ha la sua complessità sociale e storica, non abbia mai conosciuto un simile livello di decadimento morale e politico. In realtà, per relativizzare questo giudizio – che in tempi recenti ha avuto molto corso – basterebbe ricordare pagine non propriamente esaltanti della sua storia recente. Cosa è stato ad esempio il degrado, umano e sociale, delle periferie romane negli anni del boom economico e quanta corruzione abbia accompagnato quest’ultimo. Oppure quale assurdo clima di paura, intimidazione e sospetto si è vissuto a Roma negli anni Settanta del Novecento: quelli della violenza politica tra rossi e neri e del terrorismo internazionale (soprattutto mediorientale) che, per scelta politica dei governi del tempo, operava in città come in una sorta di “zona franca”.

Quanto agli scandali – sessuali, finanziari, politici, giornalistici – Roma ne è stata il centro sin da quando è divenuta la capitale politica dell’Italia unità. Alcuni di essi, da quello della Banca romana al caso Montesi, sono persino entrati nei libri di storia e fanno parte dell’immaginario nazionale. Accadrà lo stesso con la vicenda di Mafia Capitale o quest’ultima verrà confinata col passare del tempo al livello della cronaca giudiziaria e dunque dimenticata?

Nella sua storia millenaria, come ben sanno i suoi abitanti, Roma ne ha indubbiamente viste e sopportate d’ogni colore: invasioni, saccheggi, occupazioni militari, incendi, stupri di massa, rastrellamenti di innocenti, bombardamenti e congiure sanguinose. Per non dire di coloro che l’hanno governata nei secoli: dittatori privi di scrupoli, demagoghi, visionari, politici corrotti e papi famelici. I romani – come essi stessi ammettono con un certo soddisfatto orgoglio – hanno insomma vissuto e superato momenti ben più difficili e dolorosi dell’attuale.

In effetti cosa volete che siano la banda della Magliana, la combriccola Buzzi-Carminati o il clan dei Casamonica con i loro cerimoniali pacchiani e le loro fedine penali sporche lunghe un chilometro a paragone dei Visigoti di Alarico, dei lanzichenecchi e dei nazisti che nel 1943 rastrellarono gli ebrei dal ghetto. E non si vorrà mica paragonare gli odierni accumuli di rifiuti ai lati delle strade della Capitale, per quanto sgradevoli alla vista, coll’incendio della città ordinato da Nerone. Se nel passato Roma ha affidato il suo destino politico a personaggi tragicamente effimeri come Cola di Rienzo (il figlio d’un taverniere che si spacciava per l’erede illegittimo dell’imperatore Arrigo VII e che venne fatto a pezzi dallo stesso popolino che ne aveva appoggiato il disegno teso a restaurare la grandezza dell’antica repubblica romana), non si può certo farne un dramma se oggi Ignazio Marino, l’ultimo degli ambiziosi riformatori che Roma ha conosciuto nella sua storia, fagocitandoli uno dopo l’altro, si è rivelato un amministratore sprovveduto e un sindaco non all’altezza del suo compito.

Ma col fatalismo storico e il cinismo compiaciuto di chi la sa lunga e non si sorprende mai di nulla, che è un modo d’essere e di pensare tra i più tipici dell’antropologia popolare capitolina, forse non bisognerebbe esagerare. Avere conosciuto la corruzione e il malaffare in ogni possibile forma non è insomma una ragione sufficiente per assistere impotenti e rassegnati alla loro perpetuazione all’ombra di un potere – politico o religioso poco importa – a sua volta vissuto come un male necessario o come una fisiologica estensione della bramosia umana. Proprio perché a Roma tutto già si è visto e tutto è già accaduto, soprattutto nel male, si può anche pensare che le cose un giorno non lontano possano migliorare e prendere un verso più civile e dignitoso. La storia, se serve a qualcosa, serve a liberarci dagli errori, non a ripeterli all’infinito.

 

 

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