di Giuliano Gioberti
È da poco uscito . nella collana ‘Biblioteca di Politica’ diretta da Alessandro Campi – l’ultimo libro di Luigi Di Gregorio, Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, edito da Rubbettino. Un lavoro che fa una radiografia, o meglio un esame completo dell’attuale crisi delle democrazie, proprio adottando un modello clinico: sintomi, diagnosi e terapie. Ne abbiamo discusso con l’autore, cercando di far emergere le tematiche più rilevanti del libro.
Come nasce Demopatìa?
Demopatìa è un libro sul malessere democratico. Cerca di indagare, cioè, la crisi contemporanea delle democrazie occidentali a partire da alcuni sintomi: calo tendenziale della fiducia nei partiti, nei politici di professione e nelle istituzioni rappresentative; riduzione della partecipazione elettorale; aumento della volatilità elettorale; incremento del numero dei partiti che “contano”; nascita e morte (politica) repentina di innumerevoli nuovi partiti; intensificazione dell’uso dei referendum ad hoc; riduzione della durata media in carica dei governi; diffusione di stile e atteggiamento populista nei sistemi politici. Tutti questi sintomi (e altri ancora) indicano una democrazia indebolita, con un demos poco partecipe, apatico e perennemente insoddisfatto, sempre più spesso mosso da quelle che io chiamo le tre “i”: istinti, istanti e immaginario. E che sostituisce il cosiddetto “voto di opinione” con il “voto di impulso”, una quarta “i”.
Quindi la demopatìa è più che altro è una malattia del demos?
Guardi, nella letteratura politologica si possono trovare numerosissimi “colpevoli”: la crisi dei partiti, quella della rappresentanza, la mediatizzazione della politica, la personalizzazione, la fine delle ideologie, l’arrivo della post-verità e dei populismi e tanti altri fenomeni, ognuno dei quali ha ovviamente il suo peso. Ma mi sono chiesto: se tutte queste cose sono vere e sono diffuse praticamente in ogni regime democratico, deve esserci qualcosa di più profondo. E, andando in profondità, sono arrivato alla base, ossia al popolo. I nostri mutamenti come cittadini sono alla base dei mutamenti del sistema politico.
Di quali mutamenti si tratta? Di cosa si è ammalato il popolo?
Si tratta di una sorta di patologia autoimmune e degenerativa, nel senso che si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono, si intensificano nella contemporaneità. Il malessere democratico deriva, cioè, dalla lunga transizione alla postmodernità: individualizzazione, fine delle grandi narrazioni, perdita del senso sociale, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, sindrome consumistica e logica dell’ “usa e getta”, crisi delle identità e narcisismo. Ecco, la sintesi migliore resta ancora quella del narcisismo, già individuata da C. Lasch sul finire degli anni ’70 del Novecento. Se la società diventa prima di tutto psicologica, egocentrica e individualizzata, ogni settore della nostra esistenza ne risente: dall’economia, alla cultura, alla politica.
I mass media hanno un ruolo in questi mutamenti? È sempre più frequente leggere tesi che attribuiscono ai social network un peso rilevante. Come in passato è stato fatto per la televisione, peraltro…
I mass media – e più in generale tutte le innovazioni tecnologiche – sono i grandi motori di questi cambiamenti. Ogni innovazione tecnologica è un medium e ci cambia, a prescindere dall’utilizzo che se ne fa: questa era la tesi di McLuhan, racchiusa nella celebre formula “il mezzo è il messaggio”. Il passaggio dall’era tipografica a quella televisiva ha comportato determinate conseguenze. Quello dall’era televisiva a quella digitale ne comporta altre. Tutte però vanno nella stessa direzione: incrementano la velocità, premiando la sintesi e riducono automaticamente la concentrazione e l’approfondimento; valorizzano “istinti e istanti” e allontanano la logica e il ragionamento; esaltano l’immagine e penalizzano il testo scritto, e cosi via. In questo senso, la demopatìa ha luogo sia per ragioni storico-culturali (la modernità che produce “inevitabilmente” la posmodernità) che per ragioni tecnologiche (la transizione dall’era tipografica a quella digitale), entrambe legate a doppio filo: tutte le innovazioni tecnologiche recenti e vincenti sono strumentali e funzionali alla filosofia moderna: nascono per “liberare” l’individuo e finiscono per certi versi per imprigionarlo, o quantomeno per condizionarlo fortemente in un circolo vizioso pieno di effetti perversi.
In che modo tutto questo impatta sulla politica? È così totalizzante questa sindrome da invadere ogni settore?
Si, è totalizzante perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci. In sintesi, potremmo dire che oggi il consumatore ha sostituito il cittadino, anche in politica. Per certi versi è ancora valida la formula della “democrazia del pubblico” che rimpiazza la democrazia dei partiti. Il pubblico però, rispetto al passato “televisivo”, è sempre più individualizzato, è composto da elettori-consumatori sempre più insoddisfatti e alla ricerca di nuovi stimoli forti e spiazzanti (che è esattamente la logica di base della società dei consumi), di istanti pieni di dopamina e di gratificazioni immediate. Ciò che noi cerchiamo dalla politica di oggi non è un modello di riforma sociale (come poteva essere nell’era del voto ideologico) o un insieme di soluzioni di policy che riteniamo praticabili e vincenti (come era previsto nell’era del voto di opinione). Noi cerchiamo fondamentalmente emozioni forti e conferme delle nostre convinzioni. Cerchiamo sintonia emotiva, pillole psicoterapeutiche per le nostre insicurezze. Ciò fa sì che la politica performante, in un’ottica di cattura del consenso, sia sempre più quella che plasma la propria offerta in base ai desiderata della domanda, cioè del pubblico. Ragion per cui io definisco la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Che forse ormai è più che altro “emozione pubblica”. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori. Ci vendono idee nostre come fossero loro. Questo facilita l’ottenimento del consenso, ovviamente.
Eppure l’insoddisfazione continua a crescere. La polarizzazione e la radicalizzazione anche. Questa sintonizzazione non funziona fino in fondo.
Si, perché entra in gioco quella che Christian Salmon ha definito la “cerimonia cannibale”. Per catturare la nostra attenzione e il nostro consenso, i leader-follower sono costretti a seguire la logica dei media: devono fare sensazione, altrimenti neanche li percepiamo all’interno dell’oceano di informazioni nel quale siamo immersi. Per fare sensazione devono promettere “mari e monti” e farlo con un piglio fortemente volontaristico e individuale: io voglio e dunque posso, volere è potere. Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia al governo), subentrano tutte le difficoltà: 1) la complessità; 2) le risorse limitate; 3) il fatto che le opposizioni hanno carta bianca per riposizionarsi su ogni tema, mentre chi governa deve decidere e dunque essere più coerente per definizione; 4) le cose buone non fanno notizia, quelle negative si… e dunque l’opinione pubblica fatica a percepire cambiamenti positivi; 5) subentra la neofilia, la voglia di novità del consumatore che semplicemente si stanca e ha bisogno di nuovi stimoli. E dunque cestina in tempi sempre più rapidi l’ultimo leader di turno che gli ha fatto battere il cuore. Il volontarismo (impotente) diventa presto velleitarismo e continua ad alimentare l’insoddisfazione.
Messa così sembra proprio un vicolo cieco. Esiste una terapia per uscire da questo malessere?
È indubbiamente un vicolo cieco. Perché tutti i settori e le variabili coinvolte spingono verso la stessa direzione: società (dei consumi), mass media, opinione pubblica e politica sono avviluppate entro logiche tra loro coerenti, ma che conducono esattamente nel punto in cui siamo. Ecco perché ad oggi non esiste una terapia valida, anche se ne sono state proposte diverse. Personalmente ritengo che, se vogliamo provare a trovare una via d’uscita, dobbiamo se non altro concentrarci sui fattori-chiave e sulle discipline più rilevanti in quest’epoca. Il fattore-chiave è indubbiamente la testa del singolo cittadino, che peraltro è ben lontana da quella che credevamo fosse… siamo cresciuti tutti col mito del consumatore e dell’elettore razionale. Ecco, quell’individuo non esiste, né in economia, né in politica. La mente politica è una mente emotiva. E l’elettore razionale è in realtà un ultras, un tifoso spesso acciecato, dispostissimo a votare anche contro i propri interessi materiali pur di confermare le sue convinzioni. È da quello che dobbiamo partire. Dalla psicologia politica e dei consumi, dalle neuroscienze, dal marketing, dalle scienze della narrazione. Quelli sono gli unici settori che possono incidere nella società contemporanea. E solo da lì può nascere una terapia praticabile, che non sia cioè utopistica (tipo evocare un ritorno al passato) e si collochi in linea con la nostra evoluzione (o per alcuni, involuzione).
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