di Gianfranco Macrì

La tragedia norvegese ha dimostrato come le questioni che ruotano intorno alla governance della società multiculturale necessitano di essere affrontate con serietà e capacità analitiche scevre da qualsiasi preconcetto ideologico. Al di là delle azioni poste in essere da singole persone o gruppi – le cui motivazioni scaturiscono da fattori molteplici e vanno sempre spiegate senza oltrepassare il limite del contingente e dell’analisi puntuale dei fatti – la complessità oggettiva di questa società, non ha ancora prodotto una “mente multiculturale” aperta e plurale, derivante dalla implementazione di un ordine politico-sociale e giuridico espressivo della adesione e (soprattutto) messa in pratica dei principi-valori dello Stato costituzionale pluralista.

Di fronte all’avanzare delle culture “altre”, risulta ancora carente, sia a livello di opinione pubblica che di apparati politico-amministrativi, la ricerca di soluzioni orientate alla elaborazione di schemi normativi realmente innovativi, la cui trama è tutta contenuta nella cifra libertaria, egualitarista e generalizzante del modello di Stato laico e democratico.

Destano, perciò, stupore e preoccupazione certe analisi, formulate in maniera troppo superficiale a ridosso di fatti drammatici come quello appena accaduto in Norvegia, dove la sovrapposizione degli argomenti (fondamentalismo, islamofobia, ombre neonaziste, multiculturalismo, etc.) posti all’attenzione dell’osservatore determina solo confusione e disorientamento.

Le questioni scaturenti dalla convivenza tra culture diverse in Europa, non sono di facile soluzione e vanno tenute separate dal gesto di un folle. Soprattutto, com’è stato ben osservato, non si dovrebbe mai utilizzare il singolo avvenimento per “esercitarsi” nella febbrile identificazione «del Nemico [e] della ricerca di spiegazioni rassicuranti» (P. Battista, Le società vulnerabili, “Corriere della Sera” del 24 luglio 2011).

La convivenza tra diversi nello spazio pubblico richiede, innanzitutto, l’allestimento di modelli di relazione non condizionati dal peso del proprio abito culturale (occidentale) che, se non adeguatamente rinvigorito sotto il profilo della sua “elasticità”, rischia di reagire in funzione escludente di fronte a fatti sociali nuovi come l’intensificazione dei movimenti migratori e, in particolare, la richiesta di “accasamento” (T. Ramadan) formulata da soggetti di cultura islamica. Se posiamo lo sguardo sulla realtà italiana, questa elasticità va ricercata partendo dalla Costituzione che, se interpretata nella sua dimensione programmatica («L’Italia è una Repubblica democratica», art. 1 Cost.), e tenuto conto del suo formidabile apparato di orientamento culturale (artt. 3, comma 2°, 10, 11, 117, comma 1°, Cost. e art. 1 della Carta UE dei diritti fondamentali) presenta i caratteri di una vera e propria Costituzione multiculturale.

Sul fronte della comunicazione normativa, invece, le cose sono ancora più difficili. Il nostro Paese, non ha dato, sin’ora, buona prova nel momento in cui si è trovato a dover gestire questa alterità culturale e a “sopportare” il peso dell’influenza religiosa (specificazione tra le più ricche di “armi simboliche” della cultura), specie di quella islamica che si caratterizza per il suo elevato tasso di normatività (teo-diritto).

L’azione dei poteri pubblici (sia in Europa che in Italia) di fronte all’Islam, ahimè, continua ad essere declinata lungo il sentiero della estraneità; una reazione che i non occidentali (e non cristiani), sia quelli da tempo residenti in Europa che i nuovi arrivati, percepiscono soprattutto come opzione politica (a volte propagandata in maniera rigorosamente laica, come in Francia!) finalizzata a neutralizzare qualsiasi comportamento esteriore guidato dalla regola di derivazione religiosa. In Italia, alcune recenti proposte di legge in materia di luoghi di culto e di indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica, non solo affrontano problemi importanti in modo sbagliato, ma appaiono regressive sul «piano della cultura costituzionale», in quanto improntate a “trascinare” la questione dei diritti fondamentali (libertà religiosa in primis) nell’arena del dibattito politico finalizzato alla cattura del consenso elettorale; finendo con l’assecondare le pulsioni più semplici della nostra società multiculturale, dalle quali scaturiscono, inevitabilmente, sentimenti escludenti e gerarchizzanti. Tutto ciò rischia di mettere in discussione il livello più basso di domanda interculturale, quello relativo agli standard costituzionali di garanzia di diritti uguali per tutti (artt. 2, 3, 19, Cost.). Figuriamoci, allora, quando l’oggetto della domanda riguarda la legittimazione di certi bisogni identitari, individuali e collettivi (abbigliamento, alimentazione, sepolture, istruzione, etc.), frequentemente etichettati con troppa approssimazione come non attualizzabili in quanto appartenenti ad «un universo di senso radicato ‘altrove’ rispetto al linguaggio» (M. Ricca) occidentale.

Affrontare il cambiamento, allora, significa adattarsi ad esso e al suo complicato carico di novità ed incertezze. Lungo queste traiettorie il legislatore dovrà svolgere un’attività normativa in grado di garantire l’inclusione delle differenze all’interno delle declinazioni che la democrazia pluralistica è in grado di offrire meglio rispetto ad altri paradigmi o esperienze.

 

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