di Angelica Stramazzi
Da diverso tempo ormai, ci si interroga sulle ragioni del declino delle forme-partito tradizionali, sostanzialmente riconducibili ai modelli novecenteschi, caratterizzati da (dure) logiche di apparato, da scarsa flessibilità e dinamismo interno, ma soprattutto da quel centralismo democratico che – in non pochi casi – ha generato paralisi e stasi programmatiche. Tuttavia, l’irrompere sulla scena europea e mondiale di leader carismatici e di partiti personali ha generato non poca confusione e smarrimento, soprattutto in coloro che, provenendo da lunghe storie di militanza politica e di vita di sezione, non hanno ben compreso questo salto evolutivo: dal troppo – troppa democrazia interna, troppe discussioni, troppo dibattere – al niente. Al vuoto: di idee, di proposte, di progetti. In questo scenario, sono cresciute forme ibride – o comunque anomale – di partiti: un mix di tradizione e modernità, unitamente ad agglomerati (visti i risultati, mal riusciti) di spontaneismo e dirigismo, senza però che venissero stabilite delle linee guida su cui informare l’azione dei suddetti partiti (o presunti tali). I (numerosi) momenti di discussione e confronto sono stati rimpiazzati da riunioni ristrette tra i maggiorenti di questa o quella formazione, da fumosi uffici di presidenza o da capigruppo di cui i cittadini/elettori ignorano tuttora l’esistenza, con il risultato che il divario tra il Palazzo ed il Paese reale si è fatto sempre più crescente, fino a diventare talmente siderale da non poter essere più colmato. Il trionfo – in parte previsto, in parte inatteso – del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è la manifestazione più evidente (e più eclatante) di questo andamento; e se il trend non verrà invertito, nei prossimi anni saremo costretti a fare i conti con personalità che, pur mosse da buone intenzioni, contesteranno le istituzioni pur facendone parte, ma non riconoscendosi del tutto nelle logiche in cui il potere, per forza di cose, deve strutturarsi e tradursi.
Se dunque non pochi osservatori si sono concentrati sul fenomeno del populismo e della democrazia diretta, concepita senza intermediari e a tutto vantaggio – così almeno si dice – del popolo, nel nostro Paese resistono forme partitiche ancorate al passato: desiderose sì di evoluzione, ma – alla prova dei fatti – arginate a qualcosa di cui difficilmente possono fare a meno. Sarebbe infatti bastato gettare uno sguardo attento all’ultima direzione nazionale del Partito Democratico, convocata a Roma lo scorso 6 marzo, per accorgersi di come, di fronte alla ventata di novità (e bizzarra originalità) portata nelle istituzioni dal M5S e alla tenuta elettorale del Pdl di Silvio Berlusconi, il Pd si sia riunito non tanto per discutere di che piega dare agli eventi, abbandonando una volta per tutte tatticismi e attendismi, quanto piuttosto per celebrare un momento di (finta) unità interna, tutto indirizzato a riunire neoeletti, dirigenti e vecchie presenze intorno ad un’idea ancora vaga di Italia. Non dovrebbe quindi stupire più di tanto l’abbandono, avvenuto in tutta fretta e dopo l’intervento del segretario Bersani, della direzione nazionale da parte del sindaco di Firenze Matteo Renzi, una delle poche personalità in grado di mettere in crisi quell’apparato che, ancora oggi, condiziona la vita e l’evoluzione di quel partito. Nella fase delle primarie infatti, al netto della riuscita o meno delle stesse, si era cercato con ogni mezzo di ingabbiare lo scalpitante Renzi, limitando la partecipazione ai soli iscritti e preferendo (volutamente) non aprire a chi, pur provenendo da storie diverse rispetto a quelle del centrosinistra, avrebbe potuto fornire un prezioso (e per nulla scontato) segnale di cambiamento. Così non è stato; e si è lasciato che l’ortodossia finisse per prevalere sul dinamismo, sul rinnovamento generazionale e sulla necessità di convogliare sforzi ed energie lungo un nuovo corso, caratterizzato sì da fasi e momenti congressuali, ma principalmente da decisionismo e concretezza.
A circa due settimane di distanza dall’esito elettorale, il Pd, uscito ammaccato (e appannato) dalla consultazione democratica, si trova ancora una volta ad essere prigioniero di sé stesso: dei propri limiti, dei propri vizi e delle sue vecchie logiche, intramontabili come sono intramontabili le smanie di protagonismo (e di visibilità) dei suoi tanti leader. E mentre il Pdl di Silvio Berlusconi – nonostante quella che, da tanti esponenti pidiellini, viene giudicata l’ennesima offensiva giudiziaria ai danni del Cavaliere – tenta di mantenersi in piedi, sperimentando a tutto campo la personalità di Angelino Alfano, il Partito Democratico deve fronteggiare una nuova incombenza, oltre a quella – senza dubbio più impellente – di dar vita ad un governo: liberarsi di una forma – partito ormai sorpassata e priva di smalto, consegnata alla storia dalla modernità e dal fenomeno della personalizzazione (e presidenzializzazione) della politica. Ignorare questa necessità, facendo finta che tale esigenza non esista, equivale a turarsi le orecchie per non ascoltare il richiamo di quelle tante sirene che, da più parti, spingono verso un’evoluzione realmente democratica, che dia spazio ad una nuova generazione di dirigenti e di personalità che molto avrebbero da offrire ad un partito per certi versi attualmente ancorato al passato. Non servirà dunque un’altra direzione nazionale per sancire ciò che, nel resto d’Europa, è da tempo realtà sedimentata: il partito dei progressisti vedrà la luce solo quando riuscirà a liberarsi dei molti fantasmi del passato che lo attanagliano, impedendo un confronto fruttuoso con chi, pur vivendo sotto lo stesso tetto, esprime visioni parzialmente differenti ed alternative rispetto a quelle propugnate dall’ortodossia dominante.
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