di Alessandro Campi
Se può consolarci, la giustizia ad orologeria (che sarebbe meglio definire “fango ad orologeria” dal momento che con la giustizia ciò di cui parleremo c’entra poco o nulla), non è una specialità italiana, ma una regola o costante nella vita delle piccole e grandi democrazie contemporanee. Dove per spostare voti e consensi si tende sempre più ad utilizzare l’arma della delegittimazione nei confronti del diretto avversario. Delegittimazione – ecco il punto – che si appoggia, per essere resa credibile, sulle accuse, sulle voci, sulle insinuazioni messe in circolo, in modo non sempre diretto ed esplicito, ora da ambienti giudiziari ora da fonti di polizia.
Gli argomenti, va da sé, hanno a che vedere col sesso o coi soldi: le principali fonti di discredito della politica (e di chi la pratica) da quando la politica è stata inventata. Vuoi distruggere qualcuno nella corsa per il potere? Basta dargli del ladro o del corrotto oppure dipingerlo come un vizioso. Ma è importante, perché producano effetti, che simili addebiti provengano, anche solo ufficiosamente, da una fonte che si ritiene o si pretende autorevole e accreditata. E c’è qualcosa di più autorevole di chi parla e opera in nome della Legge? Così come è fondamentale, perché il discredito divenga micidiale e definitivo, che intorno a tali addebiti – non importa quanto reali o fondati su fatti, basta solo che siano almeno un po’ credibili – si costruisca una campagna di stampa di quelle che si definiscono scientifiche e martellanti. E c’è qualcosa di più morale delle battaglie condotte dietro il paravento della libertà d’informazione?
Le campagne elettorali – è triste doverlo riconoscere – nelle grandi democrazie oggi si conducono (e si vincono) così. Se non fosse che questo modo di competere – che agli scandali reali ha aggiunto quelli immaginari o costruiti a tavolino, sino a rendere indistinguibili ormai gli uni dagli altri – è ciò che sta distruggendo non solo la credibilità delle classi politiche, ma le stesse democrazie nelle loro fondamenta.
Quello che sta accadendo negli Stati Uniti – il Paese simbolo del mondo occidentale, portato sempre ad esempio quando c’è da parlare di libertà e diritti – rappresenta l’esempio forse maggiore di questa deriva delle democrazie competitive, dove un moralismo intransigente, che è ormai solo l’altra faccia dell’ipocrisia, si somma sempre più a forme di lotta politica condotte senza esclusione di colpi e senza più alcuna cavalleria e a un modo d’agire strumentale e bassamente politico di quelli che dovrebbero essere, in ogni regime politico, poteri neutrali o indipendenti.
La competizione tra Donald Trump e Hillary Clinton non è solo una gigantesca resa dei conti tra blocchi di potere economico-finanziario che solo convenzionalmente si possono definire uno “repubblicano” e l’altro “democratico”. È anche, per la forma che ha assunto sempre più nelle ultime settimane, uno scontro dove quel poco che resta di politica o di ideologia si trova ad essere pesantemente influenzato, inquinato e condizionato da forze esterne alla sfera democratico-rappresentativa, quindi non soggette alla volontà popolare, che però si considerano arbitre o depositarie dell’etica pubblica e dei principi del buon governo. Senza peraltro che si possa rimuovere il sospetto, tutt’altro che infondato, che tali forze a loro volta operino e intervengano nella battaglia in atto secondo criteri politicamente discrezionali o, peggio ancora, perseguendo in modo occulto finalità e interessi politici che rimandano ad altri soggetti o gruppi di potere.
Ieri il presidente Obama ha attaccato duramente l’FBI – l’ente federale d’investigazione che rappresenta il braccio operativo del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti – per aver reso pubbliche le carte di un’inchiesta contro Bill Clinton vecchia di quindici anni. Quale secondo fine o interesse di parte può aver mosso il suo attuale direttore James Comey? Nei giorni scorsi, Donald Trump se l’era presa con la grande stampa americana per le martellanti inchieste sugli scandali finanziari e sessuali nei quali il tycoon sarebbe coinvolto (anche in questo caso si tratta spesso di vicende vecchie di anni). È la proverbiale libertà di stampa americana o un’orchestrazione politico-mediatica dietro la quale c’è lo zampino del clan Clinton?
C’è poi da considerare il ruolo preponderante assunto in questa corsa per la Casa Bianca da WikiLeaks, che in nome della trasparenza assoluta e globale continua a pubblicare le carte e i documenti riservati che fonti generosamente anonime – ma certo non disinteressate e innocenti – forniscono a getto continuo sul conto dei due candidati, in un gioco al massacro che rischia di avere come vittima principale, così continuando, la democrazia statunitense.
Perché il problema, al di là della cronaca e astraendo dal caso statunitense, è proprio questo (e noi italiani lo conosciamo assai bene): cosa resta della democrazia, dunque della volontà popolare, quando l’esito di una competizione è deciso da uno scandalo montato ad arte o da un’accusa infamante lanciata al momento giusto (e destinata quasi sempre, come l’esperienza insegna, a scoprirsi falsa o esagerata)? La democrazia, va da sé, è controllo sul potere. Ma la diffamazione sistematica, spacciata come vigilanza fatta nel nome dei cittadini, ne è la tragica caricatura e quasi sempre prepara il terreno all’avventuriero e giustiziere di turno.
* Editoriale apparso su “Il Mattino” (Napoli) del 3 novembre 2016.
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