di Fabio Polese

2015-07-31-1La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) da poco in libreria è l’ultimo saggio di Stefano Fabei. Introdotto da Giuseppe Parlato, costituisce un’approfondita indagine sulle ragioni e suggestioni che, tra la seconda metà del 1914 e l’inizio del 1915, portarono il sindacalismo rivoluzionario italiano, o almeno gran parte dei suoi più rappresentativi esponenti, a entrare nel composito schieramento interventista. Il testo a un secolo dall’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale ha il merito di presentare in modo chiaro e preciso la serie di passaggi teorico-politici attraverso cui prese forma l’originale e articolata proposta di realizzare la sintesi di socialismo e nazionalismo – necessaria premessa a un’emancipazione dei lavoratori che non fosse soltanto economica e politica ma anche culturale e spirituale – secondo l’auspicato programma dei sindacalisti rivoluzionari italiani favorevoli all’intervento.

Rappresentando il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti, l’autore sottolinea l’importanza della storica svolta nell’universo ideale del socialismo europeo determinata dal crollo dei miti, o dei dogmi fino allora ritenuti imprescindibili, del pacifismo e dell’internazionalismo, infranti dalle scelte interventiste al fianco del loro Stato compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi.

Il sindacalismo rivoluzionario – nell’indagine di Fabei che prosegue un filone percorso già negli anni Settanta da Alceo Riosa e Gian Biagio Furiozzi e molto più recentemente da Enrico Serventi Longhi – emerge come una delle principali anime di quell’interventismo da cui, a guerra finita, iniziarono le agitazioni punto di partenza sia del fascismo sia dell’antifascismo. A parte coloro che, come Filippo Corridoni e Attilio Deffenu, dalla guerra non tornarono pagando con il sangue le loro scelte ideali, dei sindacalisti soreliani favorevoli all’entrata nel conflitto, alcuni, come Cesare Ernesto Longobardi, nel dopoguerra rimasero nell’area del socialismo, altri dopo un iniziale avvicinamento alle posizioni mussoliniane, se ne allontanarono scegliendo come Alceste De Ambris la via dell’esilio, altri ancora, i più, aderirono al fascismo e ne vissero l’esperienza fino al termine e con ruoli differenti all’interno del regime, esprimendo talvolta nei confronti di quest’ultimo una certa disillusione: Angelo Oliviero Olivetti, Cesare Rossi, Sergio Panunzio, Paolo Orano, Amilcare De Ambris, Edmondo Rossoni, tanto per citare i più noti.

Aderendo alle ragioni della nazione e mostrando la consapevolezza di poter essere al tempo stesso nazionalisti e rivoluzionari, i soreliani interventisti, videro nella guerra qualcosa di esaltante e di sovversivo, oltre che di pedagogico per il proletariato, ancora incapace di fare la rivoluzione; tuttavia, diversamente da Lenin, non compresero l’impossibilità di guardare alla rivoluzione in termini non lesivi dello Stato. Grande scandalo destarono le posizioni interventiste di questi sindacalisti rivoluzionari i quali, scrive Giuseppe Parlato nell’introduzione al saggio, per eccesso di entusiasmo e ingenuamente non riuscirono a capire che il loro progetto di un autogoverno delle categorie e di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e con molta responsabilità di categoria, si sarebbe, al termine del conflitto, rivelato solo un sogno, allorché lo Stato dimostrò di non voler perdere il peso accumulato nel periodo bellico, inserendosi fortemente nel tessuto economico. Nel dopoguerra lo Stato diventò una realtà pesante nella società e il Fascismo non trovò grandi ostacoli nell’affermare, in contrasto con i sindacalisti, un ruolo dello stesso che andasse anche oltre il peso del Partito fascista e, ancora di più, dei sindacati, anch’essi diventati organismi di diritto pubblico.

Forse sognatori, i sindacalisti come potevano però immaginare gli sviluppi futuri? Come potevano prevedere gli sbocchi del proprio pensiero e delle battaglie da loro combattute prima e durante la guerra? Dalla metà del 1914 all’inizio del 1915 il movimento rivoluzionario in Italia visse una fase di crisi, dottrinaria, morale e politica, successiva a quella che tra il 1912 e il 1914 aveva registrato un consolidamento attestato dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione.

Scoppiato il conflitto, nei sindacalisti soreliani si rafforzò l’idea che la guerra potesse offrire non solo una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro.

Già nel 1911 tra i sindacalisti soreliani c’era stato chi, come Alceste De Ambris, si era opposto all’impresa libica non in omaggio al tradizionale pacifismo proletario e all’anticolonialismo ma considerandola in contrasto con gli interessi del proletariato; era stato condannato allora «il brigantesco gesto di prepotenza», non la «guerra», che poteva essere, in certi casi, un corso di pedagogia rivoluzionaria. Quattro anni prima Arturo Labriola aveva criticato a fondo l’antimilitarismo affermando che la guerra era come una «macchina a vapore che può condurci rapidamente ad un porto oppure precipitarci in un burrone»; in certe circostanze avrebbe potuto essere utile allo sviluppo generale del Socialismo.

Per un altro grande esponente del sindacalismo rivoluzionario, Sergio Panunzio la conflagrazione europea avrebbe indebolito il capitalismo aprendo di conseguenza la strada all’affermazione del Socialismo e del sindacalismo; dalla guerra in corso sarebbe, rivoluzionariamente, scattato il Socialismo in Europa e alle guerre esterne sarebbero seguite le interne, cui avrebbe fatto seguito «la grande luminosa giornata del Socialismo», ma quest’ultimo doveva essere voluto; i sostenitori della pace erano quindi coloro che volevano conservare il capitalismo.

Per Filippo Corridoni la guerra avrebbe liberato l’Europa dall’incubo del militarismo e della reazione germanica, assicurato al proletariato di poter continuare a usufruire delle conquiste già ottenute, permesso una politica di disarmo e di sviluppo economico che avrebbe accelerato il processo di proletarizzazione creando le condizioni necessarie al naturale gioco dei conflitti di classe, eliminando il falso Socialismo cooperativista, mutualista, politicantista, e conducendo inevitabilmente al trionfo del sindacalismo.

Non molto diversamente, per Alceste De Ambris occorreva salvare le condizioni di vita e di libertà politica già conquistate dal proletariato italiano, base per un’azione rivoluzionaria, dalle conseguenze, interne e internazionali, di una vittoria del feudalismo tedesco e austro-ungarico. Sconfitte le «roccaforti reazionarie», si sarebbero avuti benefici economici, politici e morali, fra cui il Socialismo sollevato dall’ossessione pangermanistica e divenuto veramente internazionale, il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario e forse anche la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati. La guerra era quindi necessaria per affrancare il mondo dai detriti del Medioevo. Occorreva far trionfare la libertà, premessa per l’avvenire.

Che le posizioni sopra espresse fossero in antitesi con l’«ortodossia» socialista poco importava ai sindacalisti interventisti, protesi alla ricerca di una nuova sintesi tra socialismo e nazionalismo, capace di promuovere un processo di emancipazione sia economico-politica sia culturale e spirituale dei lavoratori.

La Grande guerra fu pertanto un’occasione di ripensamento dei vecchi schemi interpretativi della realtà politica, sociale ed economica. Favorì, con altri fattori, lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia e, come dimostra Fabei nel suo libro, il contesto in cui emersero in modo evidente molte idee che sarebbero state alla base del pensiero e della visione del mondo del Fascismo. Il lettore si accorgerà che di quest’ultimo, all’atto della nascita, il socialista eretico di Predappio fu in un certo senso più che l’inventore, la levatrice, colui che sintetizzò nella nuova dottrina posizioni, idee e suggestioni, espresse in modo talvolta incoerente con i presupposti ideologici originari, percepiti come costrittivi e sclerotizzanti, dai sindacalisti interventisti.

Non contro la guerra, ma nella guerra, tanti di questi ultimi cercarono la loro rivoluzione, come Mussolini cercò la propria. Futuristicamente, pur con percorsi, sogni, orientamenti e riferimenti teorici e politici diversi, vollero rompere decisamente con determinate categorie del passato, sottrarsi agli schemi astratti, ormai incapaci di illuminare l’azione rivoluzionaria in una situazione eccezionale e per certi versi imprevista, meritandosi anche loro l’accusa di essere eretici, senza peraltro che questa li scandalizzasse.

 

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