di Luigi Cimmino
L’idea di fondo della concezione “libertaria” (anarco-capitalista, anarco-liberale che dir si voglia), d’ascendenza lockiana e ben distinta da quella “liberale”, identifica come società giusta quella in cui ciascun individuo non è obbligato, da nessuna istanza o istituzione, pubblica o privata, a rinunziare ad una benché minima parte del prodotto del suo lavoro, del lavoro compiuto dal suo corpo (mente compresa!). Laddove lo spazio lecito in cui può muoversi tale lavoro si estende sino a dove questo non limita coercitivamente lo spazio del lavoro altrui. Le concezioni libertarie si differenziano a seconda di come legittimano il possesso della materia da cui nasce il prodotto del lavoro individuale – poiché ex nihilo non possiamo creare, dovremo impadronirci di oggetti non ancora trasformati dal nostro lavoro –, ma, grosso modo, questo è il loro nocciolo teorico comune. Data la sua radicalità, una impostazione del genere può ben considerarsi controparte ideale di chi lo spazio della libertà lo vorrebbe volta a volta più angusto.
Le concezioni libertarie più coerenti partono da una distribuzione in parti uguali, per qualità ancor prima che per quantità, della materia, quale che sia, da elaborare, per poi convincere il loro uditore che qualsiasi intervento che non trovi il lavoratore consenziente è un esempio di ingiustizia politica. Spetta solo alla volontà individuale la decisione di consegnare ad altri parte del prodotto. Come dire: una volta rispettati gli spazi reciproci di libertà ciascuno è libero di compiacere il proprio egoismo o di percorrere, al limite, il cammino francescano. Ciò posto le differenze prolificano. Dando per scontato il punto di partenza, l’uguaglianza di beni naturali da elaborare (ci sono anche libertari che lo negano, ma a mio avviso si contraddicono), posso lasciare una volta passato a miglior vita – questo uno dei tanti quesiti –, ad esempio ai figli, il prodotto del mio lavoro, o lo stesso istituto dell’eredità contraddice l’idea di partenza? Ad esempio perché non permette più l’uguaglianza della distribuzione in parti uguali della materia? Così, a partire dalla clausola iniziale (ripeto: dare a tutti altrettanta e altrettanto buona materia da lavorare) le posizioni libertarie si differenziano tanto da permettere al loro interno concezioni che sfiorano esiti socialisti (Hillel Steiner è un ottimo esempio di tale versante).
Ovviamente anche quella libertaria, come tutte le concezioni della giustizia, è una concezione ideale. Una teoria che funge da ideale regolativo. Non vale quindi obiettarle, come pure a volte si fa, che la realtà umana, per come è fatta, non permette chimere del genere. La risposta del libertario è inequivocabilmente quella di ribattere che la sua è una concezione prescrittiva. Di fronte a prescrizioni ardite, ma giuste, si fa quel che si può. È il mondo che deve tendere alle regole ideali, non le regole che devono piegarsi al mondo. Sarebbe come buttare a mare il cristianesimo sulla base della difficoltà storica di realizzarlo in toto.
La concezione libertaria possiede di primo acchito un pregio difficilmente contestabile. Ogni teoria della giustizia è inevitabilmente normativa. Dice come il mondo dev’essere, non come è. Prescrive appunto, non descrive! Ma quale migliore modo di giustificare una giusta distribuzione, se non quello di misurare quest’ultima in base al merito di chi se la guadagna? E come misurare la parte di merito (la seconda parola contiene la prima – mèros, “parte”) se non in base alla capacità spontanea dell’individuo di ottenere ciò che ottiene “in virtù di se stesso”, non quindi in base ad un fatto naturale? Il punto è decisivo: sembra che una norma, una prescrizione, non sia arbitraria se la risposta ad essa non è costituita da processi naturali indifferenti ai suoi comandi, ma solo da ciò che l’individuo è in grado di fare e non fare “partendo esclusivamente da sé”, quindi meritandosi, in positivo o negativo, ciò che fa. Non ha senso prescrivere quanto costringo causalmente a fare, come non posso prescrivere a un sale versato in un liquido di sciogliersi.
Se dà senso alle prescrizioni, ne è implicata, difficile negare che la libertà, oltre che il fondamento, sia il metro di come il mondo dovrebbe essere, di come sarebbe giusto fosse. Certo parecchi problemini baluginano. Un portatore di handicap, ad esempio, si merita solo il prodotto del suo lavoro? Ma quale se il suo punto di partenza è naturalmente ridotto? Il libertario può rispondere che la elargizione gratuita è aperta a tutti. L’importante è che sia libera, non coatta. Dove comincia la coazione iniziano i fatti bruti, quindi, secondo l’assunto, assieme al tramonto della libertà il tramonto del senso della normatività (e quindi della giustizia).
Funziona? Messa così credo proprio di no. La libertà è un busillis che da sempre impegna e preoccupa la mente umana. Ma quale che sia la sua natura, se tale natura c’è, questa non ha nulla a che fare con la libertà cui mira il libertario. Poniamo che Alessandro, un nome a caso, sia più intelligente, bello e simpatico di me. Potrò anche convincermi che “a partire da me”, dalla mia forza di volontà, avrei potuto ottenere più di quello che sinora ho ottenuto, ma nessuno potrà mai convincermi di poter diventare intelligente, prestante e bello come lui “in virtù di me stesso”. I suoi sono meriti naturali, fatti bruti, fra l’altro molto più piacevoli e produttivi della mia relativa carenza di cervello, arguzia e prestanza.
A tal punto il libertario potrebbe replicare: “siamo alle solite; ci si va a cacciare nei gineprai del libero arbitrio per mettere in crisi una proposta altamente intuitiva e, come in fondo si riconosce, in parte irrinunciabile. Si chiede troppo, per poi rinunziare a tutto”. In realtà quanto si chiede è il minimo: si chiede che il merito non sia un fatto bruto, mentre quelli naturali più che evidentemente lo sono. Imbecilli che si riunissero per imporre il loro potere in modo coatto (in Italia lo fanno spesso) potrebbero reclamare che la loro conquista è un fatto del tutto equivalente al fatto della fame per chi la ha e dell’intelligenza e bellezza ecc. per chi se le ritrova. Fatto contro fatto, natura contro natura, dove va a finire la giustificazione del merito, della parte che mi spetta?
Da un lato della libertà non si può fare a meno, giustifica la normatività, la prescrizione. Anche non ci fosse dovremmo far finta ci sia. Dall’altro non possiamo fare finta che siano liberi e meritati, in qualsiasi senso, i doni belli e brutti di madre natura. Ma con quale criterio definire il loro insieme? Dove comincia la vera autodeterminazione? Così ha inizio quell’arte fatta di sofisticati alambicchi e bilance che è la politica, l’arte del compromesso. Dove libertà, merito, distribuzione sono oggetto di difficilissime e sottilissime transazioni (per questo anche i governi tecnici sono politici e non platonici). Anch’essa è un arte ideale e regolativa cui ci si può solo approssimare. Forse non tanto impervia come il percorso francescano, ma certamente altrettanto chimerica – a caccia della giustizia! – quanto il mondo sognato dal libertario.
Commento (1)
Fabio Massimo Nicosia
L’articolo di Luigi Cimmino sulla libertà dei libertari è anzitutto molto bello e ricco di spunti e suggerisce una serie di osservazioni alla luce del dibattito attualmente esistente tra le varie correnti libertarie (ne nasce una al giorno). In effetti, già esordire utilizzando come sinonimi anarco-capitalista e anarco-liberale individua un problema, dato che, nel dibattito più recente ci sono alcuni anarco-liberali che rifiutano l’etichetta di anarco-capitalista, per evitare di essere confusi con i difensori del capitalismo tout court, come storicamente l’abbiamo conosciuto, il quale ha comportato compressioni della libertà (diciamo pure dei più deboli), cosa che molti anarco-liberali rifugiatisi altrove non accettano.
Particolare risulta anche la centralità affidata dal prof. Cimmino all’elemento del lavoro. E’ vero che, in genere, i libertari della right-wing tendono ad associare lavoro con libertà, nel senso che associano la libertà alla proprietà scaturita dal lavoro; ma vi sono altri libertari, i left-libertarians e i geo-libertari, che respingono questa associazione, nel senso che rivendicano una quota di ricchezza mondiale a favore di tutti e di ognuno, INDIPENDENTEMENTE da qualsiasi attività lavorativa, per il solo fatto di esistere. Si tratta, in epoca di automazione, di divaricare l’elemento del reddito da quello del lavoro, dato che, in tale epoca, pare perdente la lotta per il “lavoro” di tipo sindacale, e sempre più lo sarà in prospettiva.
Per tali orientamenti, la Terra infatti non è res nullius ma res communis, sicché chi intende impadronirsene di una quota deve compensare gli altri, o con la clausola di Locke (che è quella alla quale Cimmino allude quando parla di “dare a tutti altrettanta e altrettanto buona materia da lavorare”), o, più decisamente, versando una rendita di esistenza ai non proprietari.
Cimmino poi riconosce che si contraddicono i libertari che negano l’uguaglianza dei beni naturali al punto di partenza. Si tratta di affermazione condivisibile, che segna il confine tra l’anarco-capitalista tradizionale, e l’anarco-liberale che ha scelto di essere left-libertarian o geo-libertario.
Il geo-libertario partendo dal presupposto che il bene “pubblico” è di tutti i cittadini sicchè chi non rispetta i diritti di proprietà comune del “pubblico” deve compensare tutti i proprietari del bene pubblico, e a maggior ragione se inquina beni come aria, acqua e suolo cioè beni pubblici e quindi diritti di tutti i cittadini. Ciò porta a ragionare a favore della contabilizzazione del patrimonio pubblico, facendo emergere fin d’ora il carattere comune di questi beni, che sono di tutti e non dello “Stato”, se non per un’identificazione abusiva, per cui ciò che è di tutti sarebbe dello Stato.
Un altro punto critico del testo di Cimmino è nel carattere “normativo” della posizione libertaria. Anche qui occorre distinguere: sono normativi left-libertarians come il citato Steiner, e lo sono di fatto anche Rothbard e i suoi seguaci, quando si definiscono giusnaturalisti, ossia quando affermano di credere in diritti naturali scaturenti dalla proprietà del corpo e di quella dei frutti del proprio lavoro. E’ una differenza lessicale, ma non trascurabile, dato che Steiner si rifiuta di dare fondamenti alla sua normazione, mentre Rothbard tenta una giustificazione che, benché lui neghi, ha del soprannaturale.
Il punto cardine di una rinnovata teoria libertaria è piuttosto, come dicevano alcuni anarchici dei tempi passati, il volontarismo, il che non significa mancanza di norme, ma rifiuto di leggi unilateralmente imposte, dato che anche le norme vanno valutate secondo mercato e consenso.
Per converso, un elemento che accomuna le teorie libertarie considerate è quello del rispetto del “principio di non aggressione”, in pratica la non-violenza, che, all’occorrenza, può tramutarsi in disobbedienza civile.
Ma anche qui vi sono correnti di pensiero innovative, che non vanno trascurate. E’ noto che autocitarsi non è elegante. Tuttavia mi sarà consentito ricordare che, nel mio ultimo volume (“Il dittatore libertario”) ho parlato di una “inclinazione libertaria”, che è un’affezione dello spirito e non una norma, che non è propria di tutti gli uomini ma solo di alcuni, introducendo così un elemento in senso lato elitista, dato che quel che si propone è un governo dei libertari, assunti come persone più intelligenti di quelle dotate di inclinazione autoritaria, della personalità autoritaria come diceva Adorno, ferma restando la rendita di esistenza a favore di ciascun individuo senza discriminazioni . La titolarità della rendita di esistenza è altresì soluzione ai dubbi di Cimmino. Ad esempio, l’handicappato non ha alcun bisogno della solidarietà volontaria, come ritengono gli anarco-capitalisti, perché sarà dotato, come tutti, di una rendita autonoma. E anche chi volesse intraprendere il percorso francescano, per dirla con Cimmino, si troverebbe in una situazione difficile, perché, come dice Steiner, anche un’offerta può essere invasiva della libertà. Insomma, avrebbe, come tutti, da pensare se dismettere o no la rendita di esistenza.
Fabio Massimo Nicosia Domenico Letizia