di Alessandro Campi

Il pronostico della vigilia, fosco per i promotori del referendum, è stato rispettato. La consulta ha dichiarato inammissibili i due quesiti sulla legge elettorale. Entro venti giorni leggeremo le motivazioni tecnico-giuridiche che hanno portato a questa decisione in realtà largamente annunciata. S’era infatti capito che il nostro ordinamento non ammette vuoti normativi, tantomeno su una materia delicata come appunto la legge che traduce in seggi la volontà sovrana dei cittadini e che dunque regola il buon funzionamento della democrazia. La Costituzione inoltre fa del referendum uno procedimento abrogativo di leggi vigenti o di parti di esse e non può essere usato come strumento – seppure indiretto e surrettizio – di legislazione positiva. Votando sui due quesiti avremmo rischiato o un pericoloso vuoto legislativo o il ripristino, giudicato non ammissibile dalla stessa Corte, di una legge defunta quale il Mattarellun del 1993. Era quest’ultimo in effetti l’obiettivo dei referendari, purtroppo incompatibile con le nostre regole istituzionali.

A questo punto la partita, così come l’interpretazione di ciò che è accaduto, diventa tutta politica. I giudici costituzionali, con la loro decisione, hanno forse ceduto alle pressioni del Quirinale preoccupato per le sorti dl governo Monti? E’ questa l’interpretazione di Antonio Di Pietro, furioso come non mai per quanto accaduto: tant’è che ha subito parlato di fascismo incipiente e di attacco alla democrazia. Ma resta da spiegare, nel suo gergo, cosa c’azzecca un governo tecnico impegnato a risanare l’economia con una materia che rimane di stretta pertinenza delle forze politiche e del Parlamento e sulla quale si è correttamente dichiarato neutrale. Se anche si fosse votato in primavera nulla sarebbe cambiato nella tabella di marcia dell’esecutivo, che resta al momento insostituibile (stante il perdurare della crisi economica) e dunque al riparo dai ricatti e dai veti, più ipotetici che reali, che partiti che lo sostengono col loro voto.

La Consulta, decidendo per la non ammissibilità, ha forse voluto dire che quella vigente, nota come Porcellum, è tutto sommato una buona legge elettorale, comunque migliore di quella precedente, con la quale si può tranquillamente andare alle urne alla prossima occasione? Anche questa interpretazione, che a breve troverà, c’è da giurarci, un numero crescente di sostenitori soprattutto dalle parti del Pdl e della Lega, appare del tutto campata in aria. Casomai è vero il contrario, visto che nel recente passato proprio la Corte (sentenza 16 del gennaio 2008) ha sollevato dubbi di costituzionalità, rimasti inascoltati dai destinatari politici, sui criteri di assegnazione del premio di maggioranza che essa prevede.

Piuttosto che accusare i membri della Consulta di aver ceduto a pressioni politiche esterne, di aver fatto un favore a Napolitano e Monti o di aver colpevolmente deluso le aspettative dei cittadini che avevano firmato per il referendum forse converrebbe, a questo punto, rovesciare sui partiti la responsabilità di ogni futura decisione sul tema. Cosa intendono fare in Parlamento, non foss’altro per dimostrare, agli occhi degli elettori, che hanno ancora un ruolo da giocare e dei compiti da assolvere?

Come si sa, le idee dei partiti in materia elettorale divergono fortemente, in funzione dei rispettivi interessi e delle opposte convenienze. Ma se non si vuole avallare il sospetto – peraltro legittimo – che l’attuale normativa, in particolare il meccanismo delle liste bloccate, in realtà convenga a tutte le forze politiche, se non si vuole per davvero frustrare le attese degli elettori, forse sarebbe bene mettere quanto prima sul tappeto qualche seria proposta di riforma e qualche concreta ipotesi di discussione.

Su alcuni punti non dovrebbe essere difficile trovare un’ampia convergenza parlamentare, almeno tra i partiti principali. Esistono diverse formule – a partire dall’introduzione di rigorose soglie di sbarramento – per assicurare la governabilità senza sacrificare la rappresentanza. Al tempo stesso garantire nuovamente il diritto di scelta ai cittadini e il legame dei parlamentari col territorio non significa tornare necessariamente ai meccanismi di preferenza che in passato hanno alimentato il clientelismo, la corruzione e la costruzione di potentati locali. Così come è possibile salvare la struttura tendenzialmente bipolare del nostro attuale sistema politico favorendo la creazione di coalizioni più omogenee e meno rissose di quelle che abbiamo sin qui sperimentato.

Ma prima delle formule e delle possibili soluzioni tecniche conta la volontà politica. Tutti i partiti dicono di voler cambiare l’attuale Porcellum ben sapendo tuttavia che l’unanimità su tale materia è impossibile e che non esiste una legge elettorale perfetta. Hanno un anno di tempo per dimostrare agli italiani che intendono fare sul serio e che contano ancora qualcosa.

 

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