di Alessandro Campi

untitledChi si interroga sul futuro della politica italiana dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, non può fare a meno di constatare come quello italiano sia un sistema istituzionale che lungi dall’aver trovato una nuova stabilità rischia di configurarsi, nel prossimo futuro, in modo sempre più squilibrato e asimmetrico.

La prima asimmetria riguarda l’impianto tecnico della democrazia italiana e si riassume nel persistente contrasto tra la lettera che la ispira (a partire ovviamente dalla Costituzione) e le pratiche che la governano. Formalmente siamo un sistema parlamentare, basato sulla dialettica tra partiti politici (e sulla loro capacità di mediazione rispetto alla società), nonché su un complesso equilibrio di poteri. Nei prassi, nella propaganda degli stessi attori politici e nella percezione dell’opinione pubblica la nostra è, da circa un ventennio, una democrazia di stampo maggioritario, con forti tratti plebiscitari, dominata dalle figure di leader la cui forza nascerebbe dal contatto diretto che essi intrattengono con i cittadini e dal consenso che ottengono nelle urne.

Quest’asimmetria – nata l’entrata in campo di Berlusconi – sembrava una patologia imputabile ad una destra estranea alle procedure costituzionali. Con il sigillo politico-culturale che le ha impresso la sinistra appare oggi un tratto strutturale della nostra scena pubblica. La legge elettorale che proprio Renzi vuole con tanta determinazione ci porterà ad una forma di elezione diretta del capo del governo che fatalmente accentuerà quella divaricazione tra forma e sostanza che è probabilmente la causa vera delle fibrillazioni che attraversano il nostro sistema istituzionale e che non si è stati sinora in grado di sanare sul piano costituzionale: passando al presidenzialismo vero e proprio ovvero attenendosi alla logica parlamentarista prevista dalla Carta.

La seconda è un’asimmetria di tipo politico e riguarda l’inesistenza ormai acclarata di un’opposizione politico-parlamentare che possa rappresentare un’alternativa plausibile al Pd guidato da Matteo Renzi e all’egemonia che quest’ultimo ha imposto sulla vita pubblica italiana, come si è visto proprio con l’elezione di Sergio Matarella.

Il discorso riguarda il M5S, che anche in occasione del voto per il Colle ha confermato la sua vocazione intransigente e settaria: una ricerca di purezza ideologica che si risolse in isolazionismo e in irrilevanza politica. Ma riguarda in particolare la galassia del centrodestra, uscita divisa e politicamente umiliata dall’elezione quirinalizia. Si imputa questa difficile condizione agli errori tattici compiuti da Berlusconi, che avrebbe stretto un patto di sistema con Renzi senza chiedergli adeguate garanzie. In realtà si tratta di una crisi che viene da lontano e proprio per questo non facilmente risolvibile nell’immediato.

Essa riguarda innanzitutto la storica leadership di quel mondo: logorata dalle disavventure giudiziarie, dal trascorrere fatale degli anni e dal poco che ha conseguito quando ha avuto il governo del Paese. Ma al tempo stesso tenace e inamovibile, considerato l’intreccio politico-affaristico che l’ha sempre sostenuta e il tratto carismatico che in passato l’ha connotata. Ancora oggi c’è ancora chi crede nella capacità del Cavaliere di risorgere sempre dalle ceneri: una forma di attaccamento fideistico che sfiora l’ingenuità e il miracolismo, ma che soprattutto inibisce quel mondo dal compiere l’unico passo che abbia a questo punto un senso politico: ricercare, passando per un serio confronto interno, un nuovo leader e aprire una nuova fase della propria storia.

Tale crisi riguarda anche la qualità dei gruppi dirigenti. Negli ultimi tre anni il Partito democratico è passato attraverso una drammatica lotta intestina che ha fatto emergere un nuovo capo, una nuova cerchia governante, al centro come in periferia, e soprattutto una nuova idea di ciò che dovrebbe essere la sinistra del domani. Il che ha significato non solo una cambio radicale nello stile e nella comunicazione, che è la facciata troppo enfatizzata del renzismo, ma anche la ricerca di nuove alleanze sociali, andando oltre il confini ideologici della sinistra storica. I gruppi dirigenti del centrodestra non hanno invece provveduto ad alcun rinnovamento interno, anche per la mancanza di luoghi fisici – congressi di partito, primarie, sezioni territoriali – che potesse favorirlo. E chi lo ha fatto, come nel caso della Lega o di Fratelli d’Italia, ha scelto la strada dell’estremismo ideologico-verbale: il che può portare qualche consenso, come per tutti i partiti che fanno leva sulle identità minacciate e sulle paure sociali, ma taglia fuori dall’area del governo e condanna al ruolo di oppositori arrabbiati.

Ma quella del centrodestra è anche una crisi di idee e programmi, la vera causa da cui nascono la confusione tattica e le divisioni che si sono viste nei giorni scorsi. Quali interessi sociali si intende rappresentare? A quale parte d’Italia si parla? Quali obiettivi strategici si perseguono? Quali modelli culturali si propongono e difendono? Si sentono spesso, da quelle parti, roboanti appelli ai valori, ma la vaghezza retorica (e la poco credibilità, nel caso di alcuni dei suoi esponenti) con cui vengono declinati rende il loro richiamo politicamente inefficace.

C’è infine da considerare un aspetto di questa crisi meno considerato degli altri, che riguarda la base sociale del fronte che si autodefinisce moderato: in particolare il profilo che essa presenta dal punto di vista antropologico-culturale. Per vent’anni è stata sottoposta dai suoi leader ad una pedagogia grossolana, ad una propaganda persino primitiva, che ne ha privilegiato i risentimenti e i cattivi umori. E che in quel mondo ha imposto una visione semplificata della politica e della democrazia, ne ha depotenziato il senso dello Stato e solleticato le pulsioni anarchiche. Un elettorato così malamente indottrinato, al quale si sono offerti cattivi esempi anche sul piano etico-estetico, ha finito per radicalizzarsi sempre di più in chiave populista e antipolitica, rendendosi elettoralmente disponibile per altre avventure: dal ribellismo antisistema dei grillini alla crociate di stampo lepenista della Lega di Salvini. Se si semina vento, si raccoglie tempesta. Col paradosso che i moderati veri oggi guardano con simpatia e speranza Matteo Renzi.

Il problema è che un centrodestra così malconcio e lacerato non è solo un problema per chi lo vota o un regalo fatto a Renzi, che può manovrarlo come gli pare senza doverne temere nulla. È un problema per l’Italia e per il buon funzionamento del suo sistema politico.

* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 2 febbraio 2015.

 

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