di Giuseppe Perconte Licatese
Il titolo del suo ultimo saggio, in corso di pubblicazione per la Oxford University Press, può ricordare quello di un trattatista settecentesco, e il suo radicale interrogativo intorno alle origini e al destino della pratica che più di tutte ha segnato la storia umana. Ma in The causes of war and the spread of peace. But will war rebound? Azar Gat, professore dell’università di Tel Aviv, aggrega i risultati di ampie statistiche storico-economiche per dimostrare che nel nostro mondo, nonostante la minaccia del terrorismo e di nuovi conflitti armati, la guerra è in declino, man mano che avanza quella che l’autore chiama “la logica della modernità”.
Gat ha tenuto di recente una lezione alla John Hopkins University di Bologna, in cui ha contraddetto alcune delle impressioni diffuse tra i presenti. Davvero oggi viviamo nel periodo più pacifico della storia? Sì, e precisamente nella terza «lunga pace» iniziata nel 1945, dopo quelle del 1871-1914 e del 1815-1854. E non è la civiltà capitalista a produrre la violenza in una società per natura buona, come vuole la teoria del “complesso militar-industriale” (in fondo, un aggiornamento di Rousseau), ma è proprio questa ad aver posto le basi di un ordine sempre più pacificato. Le due guerre mondiali, dal punto di vista di Gat due grandi anomalie statistiche, paradossalmente appartengono alla tendenza di lungo periodo: il dispiegamento dei moderni apparati militari e la devastazione delle città non devono oscurare il fatto che, in termini relativi, la mortalità violenta tra i cacciatori-raccoglitori del Neolitico era probabilmente più alta, che le perdite dell’esercito romano a Canne furono pari a quelle dell’Armata Rossa, o che il popolo tedesco fu falcidiato dalla sola guerra dei Trent’anni più che dalla prima e seconda guerra mondiale messe insieme.
Classe 1959, riserva di Tsahal con il grado di maggiore, Gat non è un ottimista per indole. Quando parla del perché i suoi connazionali, a differenza dei giovani occidentali, siano più pronti ad andare alla guerra, evoca uno scenario hobbesiano che ricorda l’affresco del Lorenzetti sulle cupe conseguenze del cattivo governo: “Israele vive in una condizione di minaccia esistenziale e i cittadini sono motivati dalla reale possibilità che lo Stato sia distrutto, e chiunque esposto alla violenza e al saccheggio”. Nelle società avanzate, le opportunità economiche e la libertà sessuale hanno fatto venir meno due degli incentivi che da sempre hanno spinto gli uomini a combattere, il bottino e le donne: incentivi ancora vivi, come stanno a dimostrare le imprese dell’ISIS, e che non sono mancati nella storia recente in Jugoslavia, in Ruanda, nel Vietnam. Il fenomeno della guerra, secondo Gat, è in declino dall’Ottocento non perché sia cambiata la natura umana, ma perché è all’opera l’espansione della società aperta. Il conflitto è un potenziale iscritto nella nostra natura e uno strumento disponibile fin tanto che gli uomini ritengono sia adeguato al loro scopo. Non è la guerra a essere diventata meno attraente, dunque, ma la pace – ovvero la partecipazione all’economia internazionale – a essere diventata più vantaggiosa: le previsioni di John Stuart Mill e di Norman Angell sembrano, nel lungo periodo, verificarsi. Tuttavia, non siamo ancora alla fine di questa evoluzione. Ci sono ancora potenze autoritarie, la Russia e la Cina su tutte, che “hanno forze armate formidabili, avanzano rivendicazioni tradizionali di territorio e di influenza e vogliono partecipare all’economia mondiale alle loro regole”: moventi che Gat paragona a quelli della Germania e del Giappone degli anni Trenta, e che alimentano l’attuale corsa agli armamenti. D’altra parte, la mutua deterrenza nucleare continua a essere un potente vincolo allo sviluppo delle ostilità oltre il livello di scontri limitati e convenzionali. L’idea di accrescere il potere dello Stato e l’onore nazionale anima ancora in parte la Russia, e l’ha spinta a condurre una guerra ibrida in Ucraina in quella che a Gat appare l’ennesima, e controproducente, “tragica” decisione nella storia russa dell’ultimo secolo. Ci si può invece domandare fino a che punto la Cina, che è anche il rivale relativamente più forte dell’Occidente, avrebbe interesse ad arrivare a una guerra: essa ha fatto un forte investimento nella “logica della modernità” di cui Gat parla, e non ha davvero incentivo a interromperla, tagliandosi fuori dall’economia mondiale.
In questo quadro generale, il terrorismo islamico risulta in qualche misura ridimensionato. Gat riconosce i moventi religiosi e ideologici dei militanti islamici, che rappresentano una reazione propriamente «anti-moderna» alla logica dell’avanzamento della società aperta. Tuttavia, la prospettiva più allarmante è che i terroristi s’impadroniscano di armi batteriologiche, chimiche e radioattive, e il crollo, l’insufficiente controllo o la collusione degli Stati in Medio Oriente possono davvero rendere loro accessibili gli arsenali più pericolosi. Ma, messa da parte questa possibilità e il grande numero di vittime potenziali di un attacco non-convenzionale, statisticamente il terrorismo “fa meno morti degli incidenti domestici” e, se è certo motivo di apprensione, è un problema di sicurezza che le società occidentali possono affrontare, come fa quella israeliana.
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