di Alessandro Campi
Domenica scorsa i sudditi di Sua Maestà britannica hanno festeggiato in pompa magna e in un clima di grande festa, sfidando una pioggia inclemente e un freddo quasi invernale, i sessant’anni di regno di Elisabetta; una regata di oltre mille imbarcazioni, aperta dal battello reale, ha percorso il Tamigi tra due ali di una folla applaudente, per non dire dei ricevimenti e dei fuochi d’artificio, dello sfoggio di abiti e del diluvio di rose e garofani che hanno scandito questa ricorrenza.
Nei giorni precedenti, i cittadini italiani e le forze politiche si sono invece divisi, arrivando a darsi del farabutto e dell’indecente, sulla cerimonia che ogni 2 giugno – attraverso la parata militare ai Fori imperiali e il ricevimento del giorno precedente nei giardini del Quirinale – dovrebbe ricordare la nascita della Repubblica italiana.
Da cosa dipende questa plateale differenza?
Si potrebbe rispondere che alle monarchie, ancorché costituzionali, sono connaturate per ragioni storiche cerimonie e coreografie; esse vivono di orpelli e messe in scena teatrali, di onorificenze, mostrine e fasti. Gli splendori e le solennità non si addicono invece alle istituzioni politiche repubblicane. La loro legittimità storica, infatti, non deriva da simboli e riti ancestrali, attraverso i quali rappresentare un potere che da un pezzo ha smesso di essere assoluto e insondabile. Deriva piuttosto dal rispetto che tutti i cittadini, compresi i governanti, debbono alla legge, che non ha nulla di arcano o misterioso ma è lo strumento, razionale e prosaico, attraverso il quale una comunità organizzata la propria esistenza.
Ma questa spiegazione non regge, se è vero che in tutte le democrazie contemporanee (in larga parte repubblicane) l’uso di simbolismi (a partire dalla bandiera) e di festività politico-civili, di modelli rituali solenni e di cerimonie scandite da un rigido protocollo, di forme di rappresentazione del potere che spesso rimandano ad una dimensione liturgico-sacrale, costituisce parte integrante della vita istituzionale. Le repubbliche o le democrazie non sono per definizione noiose e tristi, incapaci di suscitare passioni collettive o forme di coinvolgimento emotivo; riposano anch’esse su un fondamento mitico-irrazionale, hanno bisogno a loro volta, per suscitare consenso, di simboli, formule retoriche e feste di popolo.
Si potrebbe anche dire che, in questa particolare congiuntura storica, l’Italia ha altro cui pensare che a cerimonie, parate e ricevimenti di gala. Con la crisi economica che morde le famiglie, perdersi in festeggiamenti significa, come ha elegantemente sostenuto Roberto Maroni, “buttare i soldi nel cesso”. I contribuenti, peraltro sempre più tartassati dalle tasse, come possono tollerare un simile spreco di risorse pubblico a beneficio peraltro di una piccola minoranza di privilegiati che si limita a celebrare se stessa? Il problema è che neanche la Gran Bretagna, di questi tempi, è esente da difficoltà finanziarie e da problemi sociali anche gravi, che forse avrebbero dovuto consigliare anche lì risparmi e tagli di bilancio. Ma perché oltre Manica nessuno ha considerato il giubileo della regina uno spreco o un insulto alla miseria? Forse che i sudditi di Elisabetta sono più irresponsabili o meno intelligenti di quei cittadini italiani che in questi hanno gridato allo scandalo con ogni possibile argomento?
Si è allora detto che festeggiare il 2 giugno facendo sfrecciare le frecce tricolori o lasciando suonare la fanfara ai reparti militari sarebbe stato un insulto per coloro che hanno subito danni e lutti a causa del terremoto. Se il problema è veramente il rispetto del dolore altrui forse andrebbe sospesa la gran parte della programmazione televisiva per i prossimi mesi, visto il livello indecenti di molte trasmissioni, senza contare che aver dedicato alle vittime del terremoto la parata militare, ancorché nella sua forma ridotta, è stato un segno di partecipazione e affetto di gran lunga preferibile ad un silenzioso cordoglio istituzionale.
Ma – si è anche detto – sessant’anni di regno sono un evento storico eccezionale, che giustifica la mobilitazione di un intero Paese, mentre la festa della Repubblica è una ricorrenza annuale: sopprimerla o sospenderla per una volta, stante il momento eccezionale, non avrebbe prodotto alcuna conseguenza negativa. Il problema è che le festività – civili o religiose non fa differenza – non sono una scadenza del calendario tra le altre, da sopprimere alla prima difficoltà o perché qualcuno lo chiede a gran voce sul filo dell’emozione. Sono l’occasione data ai membri di una collettività per raccogliersi periodicamente insieme rafforzando così il proprio senso di appartenenza, per perpetuare simbolicamente un evento fondativo comune ovvero per trovare motivi di unità e solidarietà come è necessario soprattutto nei momenti difficili della propria esistenza. Troppo comodo – e in fondo inutile – festeggiare o celebrare quanto tutto va bene!
Da cosa nasce allora la differenza, cui abbiamo assistito in questi giorni, tra Gran Bretagna e Italia? Probabilmente dal fatto che la prima è una nazione orgogliosa della propria storia, che continua a concepirsi come una realtà unitaria e solidale, mentre la seconda è invece una realtà politico-territoriale sempre più frammentata al suo interno e che sembra aver rinunciato ad avere un futuro che possa essere condiviso da tutti i suoi cittadini.
Al di là delle divisioni politico-ideologiche che l’attraversano, la Gran Bretagna sembra avere una classe dirigente ispirata da valori comuni, i cui membri non si limitano a perseguire i propri interessi particolari. I gruppi dirigenti dell’Italia, al contrario, sono affetti da un atavico individualismo e dalla mancanza di una visione autenticamente nazionale. La sua classe intellettuale sembra compiacersi da sempre di essere anti-italiana. Quanto al suo ceto politico, da sempre rissoso al limite dell’inconcludenza, non sempre aver dinnanzi a sé altro orizzonte che la spicciola convenienza elettorale.
Quanti nei giorni passati – a destra come a sinistra – hanno criticato Napolitano per la sua scelta di non rinunciare del tutto ai festeggiamenti per la Repubblica non l’hanno fatto, a ben vedere, per nobili ragioni ideali o perché mossi da una sacra indignazione, ma per spregio nei confronti dell’Italia centralista (gli alfieri dell’indipendentismo padano), per retorica antimilitarista (la sinistra radicale), per mettersi in concorrenza col populismo antipolitico e anticasta di Grillo (Di Pietro), per storica mancanza di senso dello Stato (un certo mondo cattolico incline al terzomondismo e al pauperismo).
Le polemiche sul 2 giugno hanno insomma confermato, da un lato, la storica debolezza dell’Italia dal punto di vista politico-istituzionale, dall’altro la sua drammatica necessità di fattori coesivi e di occasioni, anche di tipo simbolico e celebrativo, nelle quali agli italiani sia consentito di considerasi membri di una stessa comunità civile e di condividere valori e speranze.
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