Montesquieu*
Chi si riaffacciasse sulla scena della politica interna dopo due anni di assenza, per saturazione o semplice distrazione, stenterebbe a riconoscere nel Partito democratico il prodotto della confluenza
tra le due principali radici politiche del paese, quella cattolica e quella comunista. Un paese di scarsa vocazione liberale, il nostro. Due forze fieramente avversarie per i primi quarant’anni della repubblica, a tal punto incompatibili da vivere soprattutto l’uno della distanza dall’altro, che si sono via via avvicinate fino a fondersi sulla base di alcuni valori e sentimenti comuni: una forte proiezione sociale e popolare, una sintonia istituzionale e soprattutto parlamentare, sviluppata dalla “conventio ad escludendum” dal governo del paese del partito comunista; una coesione dimostrata lungo l’arco dei terribili anni del terrorismo, a testimonianza di comuni valori civici e repubblicani.
Stenterebbe, quel signore saturo o distratto, a riconoscere nel Partito democratico della diciassettesima legislatura il figlio di quell’incontro, di quel patto storico: nella superficie e nella profondità. In primissimo luogo, per la sembianza del Partito democratico odierno di un partito quasi “personale”, quindi incarnato dalla personalità dominante del duplice leader, di partito e di governo. Costruzione istituzionale, quest’ultima, recisamente rigettata ed estranea ad entrambe le forze costituenti, vocate al procedere collegiale, orizzontale, aduse alla pratica del potere diffuso: seppure fortemente ancorate a modelli associativi diversi. Attraversate, infatti, da forti divisioni interne l’una e l’altra, platealmente esibite quelle del partito cattolico, con le correnti interne a fronteggiarsi duramente; sotterranee, le divisioni, fino ad essere invisibili all’occhio profano, quelle interne al partito della sinistra, in nome del cosiddetto centralismo democratico. Fortissimamente accomunati peraltro, i due partiti, nell’unità di fondo tra tutte le anime, quelle pubbliche della democrazia cristiana e quelle intraviste del Pci.
Nel Partito democratico di oggi non si intravedono le sagome delle componenti originarie: si immagina, dalla politica del segretario capo di governo e dai rapporti interni, la sopravvivenza e la prevalenza di una componente moderata, pur priva dei connotati, confessionali e solidamente laici ad un tempo, della componente cattolica, mai pregiudizievoli di un solido senso delle istituzioni statali.
Sono sbiadite, le linee della confluenza, ma non per la perfetta cicatrizzazione dell’innesto: quanto perché non si delinea alcun ruolo, ancorché minoritario, della componente post-comunista, letteralmente evaporata numericamente e politicamente. In un rincorrersi di rottamazione e auto-rottamazione. Se la confluenza fosse stata ancorata – anziché ad un accordo politico, non scritto – ad un patto societario, ad uno statuto, anche di durata limitata nel tempo, non stupirebbe l’idea di un’azione rivendicativa di spazi, temi e diritti, di una parte del partito.
Schematicamente: oggi il Pd è un partito monocratico e fortemente accentrato, con una forte quanto inedita identificazione dei quadri nazionali con la leadership. In periferia, non è chiaro cosa sia. In linea con i dettami della Seconda repubblica, nata dal terremoto politico giudiziario che ha radicalmente mutato la geografia del panorama politico, è un partito che ha abdicato all’irrinunziabile – apparentemente – dialettica tra partito e governo (irrinunziabile anche quando governa) con un impatto conseguente sul rapporto tra politica e istituzioni, soprattutto parlamentari; un partito a larghissima compatibilità e disponibilità alleative, per l’allentamento dei connotati ideologici che hanno segnato per un quarantennio i confini del dialogo possibile. Un partito moderno contro un pur giovanissimo partito tradizionale, in sintesi estrema.
Un partito da “Seconda repubblica”, diretto da giovani fino ad ieri sconosciuti agli stessi antichi militanti; un partito pragmatico, concreto, efficiente, forse non efficace – come dimostrano le vicissitudini periferiche dello stesso -; assai più “governativo” che “politico”. Che va a sostituire, mantenendone il nome, l’ultimo, residuo partito risalente alla vecchie ideologie ed ai vecchi rituali. In questo senso, la “Seconda repubblica” appare compiuta, omogenea, e il termine acquista un possibile significato istituzionale, non solo sintesi giornalistica.
Chi parla di una mutazione genetica non sbaglia, e non offende o diminuisce né i dirigenti di ieri né quelli di oggi: i più restii, questi ultimi, ad accettare questa definizione, che pure riflette un cambiamento di immagine determinato dal nuovo leader. Quasi che la mutazione portasse via da sé brani di un patrimonio elettorale evaporato per motivi forse indipendenti. Un partito che, attenuando la attitudine alla discussione come metodo di vita interna, ha sposato la moderna tendenza ad una politica incentrata sulla decisione come momento che non trascina con sé le scorie ed i valori di posizioni rivelatesi minoritarie. E che, grazie a questa trasformazione di cultura istituzionale, ha condotto in porto una riforma costituzionale intorno alla quale il “vecchio” partito avrebbe cincischiato a lungo e con intimo compiacimento.
Un partito, quello odierno di Matteo Renzi, che soffre i riti del bicameralismo paritario, infatti, non finge solo di soffrirli. E ne ha cancellato i pregi di una avversità alla semplificazione come dogma.
Ancora: un partito, quello renziano, insofferente all’imbrigliamento da regole, nelle camere e fuori dalle stesse, sempre in marcia verso il risultato, da raggiungere con chi si incontra sul cammino e cammina nella stessa direzione, senza legami organici o definitivi.
Un partito migliore? Ognuno ha gli elementi per dare, almeno a sé, la propria disposta. Per quella oggettiva, tangibile, sarà meglio aspettare.
* Montesquieu è il “nom de plume” di alto funzionario dello Stato italiano, le cui analisi appaiono regolarmente sul “Sole 24ore”. Quest’intervento è stato scritto appositamente per il sito dell’Istituto di Politica.
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